Vi riporto la notizia apparsa ieri su Il Sole 24 Ore:
La Svizzera ha firmato l'accordo per lo scambio automatico di informazioni fiscali. L'intesa pone così fine al segreto bancario . Lo comunica l'Ocse spiegando che l'accordo é stato firmato anche da altri Paesi tra cui Singapore, Cina, Brasile e Costa Rica.
Sono 47 i Paesi che hanno firmato l'intesa che prevede lo scambio automatico di informazioni finanziarie su base annua tra i governi. La dichiarazione é stata siglata dai 34 paesi membri dell'Ocse e da tredici partner associati tra cui Singapore, Malesia, Indonesia, Cina, Argentina, Brasile e Sudafrica.
«È chiaramente la fine del segreto bancario sfruttato per ragioni fiscali», ha dichiarato Pascal Saint-Amans, direttore del centro di politica e amministrazione fiscale dell'Ocse.
La maggior parte degli altri paesi firmatari si erano già impegnati per lo scambio automatico di informazioni ma la Svizzera e Singapore, importanti centri finanziari, non lo avevano ancora fatto. E finora lo scambio scattava solo su richiesta, in caso di indagine del fisco o della magistratura. Le banche avranno un anno di tempo per adattare i loro sistemi informativi e i governi stessi dovranno modificare i loro ordinamenti fiscali.
Sempre sul tema, vi riporto l'ottimo articolo di F. Renne, pubblicato qualche mese fa su "The Fielder", che offre un quadro esaustivo della situazione.
Sempre sul tema, vi riporto l'ottimo articolo di F. Renne, pubblicato qualche mese fa su "The Fielder", che offre un quadro esaustivo della situazione.
Il mito del segreto
bancario non esiste ormai
(quasi) piú. Non nelle economie avanzate; e, a ben vedere, meno di quanto si
pensi nei presunti paradisi fiscali
e finanziari. Le prime, strette tra le indicazioni del GAFI («Gruppo d’Azione Finanziaria
Internazionale» — FATF, in inglese — con ampi poteri di
promulgazione di linee guida operative per contrastare frodi, sostegno a
organizzazioni terroristiche e riciclaggio internazionale che, invero, sono
sempre piú adottate anche in campo fiscale dagli attuali 35 Paesi membri) e le
singole esigenze di gettito da trovare. I secondi, perché molti di loro stanno,
piú o meno volontariamente, riconvertendosi in piazze finanziarie collaborative,
e quelli che ancora resistono sono sempre meno di numero e sempre di piú nel
mirino delle pressioni della comunità internazionale. Contrariamente a quanto
si può pensare, infatti, questa non è una storia solo italiana — anche se siamo stati
antesignani nel muoverci nella direzione sia dell’abbattimento del segreto
bancario in campo fiscale sia dell’adozione di misure del (tanto criticato
quanto poi copiato) rientro agevolato dei capitali.
V’è
una convergenza di piú temi verso un unico strumento, ostacolato dall’esistenza di
quest’antico mito. Il contrasto al riciclaggio internazionale, prima; il
contrasto ai finanziamenti illeciti a sostegno del terrorismo, poi; le singole
esigenze di gettito fiscale in un numero sempre maggiore di Paesi, infine — tre
temi che convergono verso lo strumento dello scambio dei dati per la
cooperazione giudiziale e fiscale. Il quale trova(va) l’unico ostacolo nella
resistenza del segreto bancario, esistente soprattutto in alcune giurisdizioni.
Ma sta davverocambiando
qualcosa, a livello internazionale, sul tema? E poi: come s’è mossa l’Italia, e come si sta muovendo ora?
Infine, come dovrebberocambiare i
comportamenti di fronte a questo
scenario?
Intanto,
va detto che a livello internazionale il vento è cambiato soprattutto dopo l’11 settembre 2001.
A séguito dell’attacco alle Torri Gemelle, per la prima volta nella loro
storia, gli USA smisero di mettere il veto ad azioni o proposte legislative che
andassero nella direzione di limitare la libertà d’azione dei paradisi fiscali
e finanziari. Prima, tutti i tentativi — essenzialmente europei — di
«perforare» normative di Paesi terzi non collaborativi nelle indagini
giudiziarie avevano sortito poco effetto. Con la liberalizzazione valutaria in
Europa, oggi data per scontata, ma datata «solo» primi anni Novanta, era stato
introdotto un primo accordo di scambio di dati su richiesta d’un altro Stato
nonché un sistema di rilevazioni statistiche (la «nuova» CVS, comunicazione
valutaria statistica, per le operazioni «canalizzate» e il quadro RW, nella
dichiarazione dei redditi, per le «non canalizzate» tramite intermediari
finanziari e per le «consistenze» d’investimenti detenuti all’estero); ma,
nella pratica,non
ebbe grande successo nei primi anni d’applicazione. Poi era venuto il turno —
su proposta dell’allora Commissario Europeo dell’Italia,Monti — della «direttiva
sull’euroritenuta», che istituiva il principio alternativo tra scambio dei
dati e tassazione alla fonte ad aliquota maggiorata (fino al 35%). Questa,
però, si scontrò súbito sia con le resistenze inglesi (che chiesero
l’esclusione della sua applicazione alle società e alle altre persone
giuridiche, nonché la sua applicazione ai soli redditi di capitale e non alle
plusvalenze — rendendola, nei fatti, facilmente aggirabile) sia con le deroghe
concesse a tre Stati membri: l’Austria, il Lussemburgo e il Belgio.
Dopo
l’ingresso sulla scena del pericolo terrorismo, tutto cambiò. Non lo dicono solo
le cronache per gli addetti ai lavori, ma soprattutto un fatto eclatante,
transnazionale e probabilmente allora poco
compreso nella sua portata. Per la prima volta, vi fu un provvedimento giudiziale
soprannazionale che bloccò, con una specie di sequestro
preventivo, i conti e i depositi ovunque aperti nell’UE e nei Paesi aderenti al
GAFI — USA compresi — da soggetti o istituzioni sospettate di fiancheggiamento al terrorismo.
Provvedimento vincolante anche in quei Paesi che vedevano il segreto
bancario tutelato nella
Costituzione, come l’Austria o la Svizzera. Un precedente utile a un certo
scopo di prevenzione nella lotta internazionale al terrorismo, che però ha
aperto un varco a ciò che stiamo vedendo oggi.
Lo
scenario è stato, in Italia, accompagnato dall’evoluzione di due
misure (tanto discusse quanto tuttora attuali) interne:
l’originaria anagrafe
dei conti correnti e dei depositi (strumento
ideato dall’allora ministro Visco nel
2006, al fine di «radicare», in maniera agevolata, l’inversione dell’onere
della prova nei casi d’accertamenti di natura finanziaria in deroga al segreto
bancario, già possibili fin dal 1991) e le prime versioni dello scudo
fiscale (strumento per agevolare
il rientro dei capitali irregolarmente detenuti all’estero cosí da ampliare la
base imponibile per gli anni successivi, ideato dal ministro Tremonti nel 2001). Indipendentemente dal
giudizio di ciascuno sui singoli strumenti (per chi scrive, qualora interessi:
utili le deroghe al segreto bancario, finché restano, appunto, deroghe;
pericoloso il ricorso all’anagrafe dei conti e dei depositi per la violazione
dei diritti di privacy, ma molto comodo,
in termini di tempi guadagnati,
per gli accertatori del fisco; condivisibile laratio delle norme sul rientro dei capitali),
questi provvedimenti sono stati il prodromo di ciò che sta avvenendo — anche
contraddittoriamente, in parte — oggi.
Oggi,
le deroghe al segreto bancario sono andate
a regime. L’anagrafe è diventata dei
rapporti finanziari, non si limita alla tipologia del rapporto ma s’estende
ai saldi e ai volumi movimentati su conti correnti o per investimenti
finanziari, ed è estesa agl’intestatari e ai loro delegati — anche una
tantum — nonché alle
assicurazioni (per i prodotti aventi natura finanziaria) e alle fiduciarie (con
regole particolari che ne mantengono, a date condizioni, la convenienza al loro
uso). A questa s’aggiunge, poi, il nuovo redditometro e le segnalazioni di monitoraggio
connesse. Per finire, dodici anni dopo, il governo s’appresta a varare una
norma di nuova facilitazione del rientro dei capitali detenuti all’estero,
sulla falsa riga del programma di voluntary disclosure istituito negli USA e «promosso» dal
GAFI, con applicazione delle imposte eventualmente evase e l’agevolazione di
sanzioni ridotte, amministrative e penali.
Perché
farli rientrare, per chi li ha fuori, e che cosa fare, per chi li ha regolari
in Italia? Di nuovo, occorre guardare a ciò che sta succedendo all’estero. Le isole
britanniche del canale hanno
ormai ceduto alle pressioni internazionali. San Marino ha
appena firmato un accordo di cooperazione coll’Italia, dopo aver perso piú del
50% dei depositi negli ultimi dieci anni, in cui ha di fatto cercato di guerreggiare coll’Italia. AMontecarlo le società
anonime, quelle con azioni al portatore, devono depositare annualmente i
nomi dei soci, ed è stato firmato un accordo di collaborazione con la Francia.
Il Liechtenstein ormai fa raccolta quasi
esclusivamente con prodotti assicurativi. L’Austria e la Svizzera,
come quest’ultima con Gran Bretagna e Germania (solo per quest’ultima per ora
sospeso), hanno firmato un accordo, giornalisticamente detto «Rubik», che prevede tassazione elevata sui
risparmi se non viene concessa dal cliente l’autorizzazione allo scambio dei
dati. Gli USA stanno firmando — proprio di
questi giorni è stato il turno dell’Italia — con diversi paesi gli accordi FATCA,
che impongono agl’intermediari specifici obblighi di segnalazione e di
comportamento con clienti americani. Gli USA hanno anche «imposto» alla
Svizzera un accordo che prevede, a date condizioni, multe salate alle banche
elvetiche per il passato ove vi siano state attività con clienti
americani, e ora stanno rivolgendo le loro attenzioni a piazze piú
esotiche, caraibiche e asiatiche. (Nel mirino, oltre a Panama e altre isole
minori, sembrano esservi ora le piazze arabe, come Dubai, e dell’Estremo
Oriente, come Hong Kong e Singapore.) Per finire il quadro, Svizzera,
Lussemburgo e Austria, tra l’altro, hanno firmato gli accordi di cooperazione e
scambio dei dati a partire dal 2015.
Certo,
se non si continuasse in Italia s’una china sbagliata, dopo aver tassato
retroattivamente — non rispettando lo Stato il patto coi contribuenti — i
capitali scudati, facendo ora paventare ulteriori incrementi d’imposizione
sulle rendite finanziarie e patrimoniali future piú o meno occulte, magari dato
il contesto la voluntary disclosure potrebbe anche funzionare, con annessi
benefici per il Paese (piú per il potenziale rilancio degl’investimenti che per
le casse dell’erario). Ma una cosa resta chiara: se il trend è
comune ad altri Paesi e i ripari sono
sempre meno affidabili, la differenza sta
nel livello
d’imposizione interno —
complessivamente ben piú alto rispetto
agli altri Paesi — e nelle regoled’accertamento e riscossione, basate
su presunzioni e inversioni dell’onere della prova — con continue lesioni
del diritto alla difesa — e
sulladisapplicazione dello Statuto
del Contribuente. Non è una storia solo italiana,
s’è detto all’inizio; occorrerebbe però rimuovere le anomaliesolo nostre.
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