di Paolo Cardenà-
Qualche
giorno fa il Premier Enrico Letta ha affermato:
"Se ci si chiede perché
l’Italia è un Paese poco competitivo, rispondo perché l’economia in nero è così
quantitativamente importante. Distorce la concorrenza e crea inefficienza… Nel
nostro Paese le tasse sono troppo alte perché non tutti le pagano”.
Insomma, il messaggio che si vuol
far passare è quello che l'Italia fallisce per colpa dell'evasione. A parte il
fatto che esistono numerosi studi che tendono a smentire -almeno parzialmente-
le affermazioni del Premier a proposito della carente competitività legata ai
fenomeni evasivi, di seguito vorrei
proporvi la mia opinione sul tema fisco ed evasione fiscale, enunciandovi
quelle che sono le criticità che determinano (o per meglio dire stimolano)
l'evasione fiscale.
Più volte abbiamo discusso
dell'oppressione fiscale di questo Paese, sia in termini di procedure di
contrasto all'evasione, che di livello della pressione fiscale. Elementi,
questi, che contribuiscono a rendere l'Italia uno dei paesi meno competitivi a
livello planetario e che, ritengo, siano propedeutici al fallimento che stiamo
vivendo. In effetti, se andassimo a verificare il tessuto della normativa
fiscale sul quale lo Stato pone la sua pretesa tributaria, ci
accorgeremmo subito che è una normativa degna di uno stato fallito, quale è
l'Italia. Oltre al tema del livello della pressione fiscale che non ha eguali
nel contesto mondiale, subito ci accorgeremmo che l'impianto normativo è una
raccolta di norme per nulla omogenee, disorganiche, talvolta contraddittorie e
per nulla attinenti allo sviluppo del contesto economico e sociale intervenuto
nel paese nell'ultimo trentennio. In pratica, sono norme appiccicate l'una alle
altre, senza alcuna soluzione di continuità e formulate non in base ad una
visione strategica della società, dell'economia e più in generale della
nazione; ma dallo stato di necessità delle finanze pubbliche, che negli ultimi
decenni, sostanzialmente, hanno sempre espresso crescenti necessità di flussi
finanziari (tasse) fino ad arrivare, negli ultimi anni, a toccare il
punto di non ritorno
. In pratica, il (non) senso
osservato dal legislatore in questo lungo periodo, sostanzialmente, è
stato questo: mancano dei soldi? Bene, procediamo inasprendo la pressione
fiscale e facciamo cassa con l’introduzione di nuove imposte o, molto più
semplicemente, inasprendo quelle già esistenti. Questo, in buona sostanza è
stato il criterio ispiratore di tutte le manovre fiscali che si sono varate in
quasi un trentennio, trascurando del tutto gli effetti nefasti che questo modus
operandi avrebbe prodotto. Ecco quindi che sono state introdotte un numero
elevatissimo di imposte, tributi e adempimenti, proprio al fine di colpire
nuova materia imponibili e, talune imposte, sono delle vere e proprie
stranezze. Un normativa fiscale in perpetuo mutamento, oltre a disorientare il
contribuente ed esporlo ad una crescente possibilità di cadere nell’errore,
sempre pronto ad essere sanzionato, compromette anche la possibilità da parte
degli operatori economici di effettuare una pianificazione fiscale delle
proprie attività scoraggiando gli investimenti. Nell’ultimo periodo, ne
costituisce un esempio clamoroso l’atteggiamento adottato dal legislatore nel
limitare la deducibilità dei costi attinenti ai veicoli aziendali, che è
passata dal 50% di pochi anni fa, al 20% attuale. In questo caso, tale
limitazione è stata introdotta senza alcun criterio logico e tantomeno
pertinente con il reale utilizzo delle autovetture all’interno dell’azienda,
con il solo fine di limitare la possibilità di dedurre costi (delle
autovetture, in questo caso) e quindi avere maggiore materia imponibile da
colpire. Trascurando il fatto che una minore possibilità di dedurre il costo
delle autovetture, si traduce anche in un disincentivo all’acquisto di tali
beni, rischiando di soffocare un mercato già in agonia, vale la pena segnalare
che questo non è l’unico esempio al quale possiamo far riferimento. Ritornando
al nostro ragionamento, introdurre un numero elevatissimo di imposte, significa
anche dover produrre altrettanti adempimenti amministrativi a carico di quei
soggetti obbligati al pagamento dei tributi: ossia le imprese e le famiglie.
Quindi, questi, oltre a patire l'impatto vessatorio dei tributi pretesi
dalla stato, subiscono anche un aggravio di costi amministrativi sia per la
determinazione delle imposte da pagare, sia per la gestione amministrativa del
rapporto fisco contribuente, che si sostanzia in un numero sempre crescente di
adempimenti dichiarativi da svolgere e di comunicazione talvolta al limite del
ridicolo. Da questo punto di vista, in definitiva, possiamo affermare che si è
arrivati ad un livello insostenibile di prelievo fiscale e con essa anche
ad livelli altrettanto alti di adempimenti fiscali e amministrativi, proprio al
fine di offrire alle casse dello stato un gettito sempre crescente e
apparentemente idoneo al mantenimento di una apparato statale degno di uno
stato Bolscevico. Per contro, gli effetti nefasti della crescente pressione
fiscale, non sono stati affatto compensati con l’erogazione di servizi di
crescente qualità (scuola, sanità, strade, infrastrutture, servizi sociali,
burocrazia ecc. ecc.). Anzi, potremmo agevolmente affermare l’esatto
contrario, vista la pessima qualità con la quale lo Stato, il più delle volte,
eroga i servizi alla popolazione. L’evasione fiscale a cui e si sta giustamente
dichiarando guerra, trova terreno fertile proprio in un quadro normativo
di questo genere che, a parer di chi scrive, dovrebbe essere profondamente
riformato e reso sinergico ed aderente alle mutate condizioni economiche,
sociali e culturali intervenute nel corso di questi anni, senza dimenticare la
proiezione strategica della nazione per i prossimi 20/30 anni o forse più.
Ecco quindi la necessità di dover
adottare un impianto normativo stabile, facilmente comprensibile, che consenta
di tagliare il numero degli adempimenti e instaurando un rapporto di
fiducia tra il Fisco e il contribuente, ormai venuto meno, e rimuovere
l’ostilità dilagante nei rapporti tra gli organi preposti alla pretesa
tributaria e il cittadino, creando anche le condizioni per un maggior senso
civico. Questo, unitamente ad una preventiva diminuzione della spesa pubblica,
e riducendo in maniera sistematica e ragionevole la pressione fiscale tramite
un preventivo calo dell’inefficienza pubblica, consentirebbe anche una
sistematica riduzione della pressione fiscale, posizionandola verso livelli di
maggiore sostenibilità.
Semmai ce ne fosse bisogno, giova
ricordare che ad indignare il contribuente e a stimolare l’infedeltà fiscale,
contribuisce anche lo squallore di cui la nostra classe politica si rende
quotidianamente protagonista.
Le cronache giornaliere ci
raccontano di ruberie, tangenti, corruzione e privilegi sfrenati; di abusi e
soprusi, perpetrati da una casta di potere che trae, più o meno indirettamente,
vantaggio dalla spremitura fiscale di chi lavora onestamente e produce e crea
ricchezza. Comportamenti che, oltre ad incorporare elementi di criminalità, non
offrendo esempio di onestà e di sobrietà, risultano in netto contrasto
con il ruolo esemplare a cui i nostri miserabili politici dovrebbero
naturalmente confermarsi.
Senza poi considerare le migliaia di
opere pubbliche presenti nel nostro paese, avviate, la maggior parte delle
volte, per esigenze clientelari e poi neanche concluse. Opere che raccontano di
storie di tangenti, di corruzione, di criminalità, di mafie e del malaffare
diffuso al servizio della politica per comprare consensi elettorali. Miliardi
di euro andati letteralmente in fumo.
E’ evidente che ogni contribuente,
trovandosi dinanzi a un simile scempio e a tanto spreco, si interroghi
sull’opportunità o meno di pagare tasse proibitive, sapendo dell’uso che verrà
fatto dei propri sacrifici.
L’anatema secondo il quale un
abbattimento della soglia di utilizzo del contante nelle transazioni
commerciali, o addirittura, la totale eliminazione, possa costituire
elemento idoneo a contrastare l’evasione fiscale, costituisce un vero e
proprio veicolo propagandistico con il quale i politici tendono ad
occultare i propri insuccessi.
Il messaggio che si vuole offrire è
quello di ribaltare le responsabilità del fallimento di questa politica che sta
conducendo la nazione in bancarotta, proprio sul contribuente presunto evasore.
L’Italia fallisce per colpa degli evasori. In buona sostanza è proprio questo
il senso di tanti spot propagandistici. Quando si parla di fenomeni evasivi,
erroneamente, si tende a riferirsi all’evasione posta in essere dal piccolo
commerciante che non emetterebbe lo scontrino fiscale. Noi non vogliamo
asserire che ciò non sia vero e che non costituisca un problema. Ma giova
ricordare che per effetto dell’applicazione degli studi di settore, un ampia
platea di imprese di piccole e medi dimensione (sommariamente quelle che il
fisco individua con fatturati fino a 7,5 milioni di euro, oltre ad altri
parametri) determinano il proprio reddito prescindendo dall’effettiva
realizzazione. In pratica, tramite questi strumenti statistici che propongono
livelli di redditività di un'azienda in base a numerosi parametri di
riferimento, il fisco stabilisce quali debbano essere i ricavi ritenuti
“congrui e coerenti” per una determinata tipologia di attività, a prescindere
dal fatto che i ricavi individuati da tale strumento statistico, siano stati o
meno realmente utilizzati. In buona sostanza, un imprenditore, durante il
periodo di imposta, potrebbe porre in essere pratiche evasive, salvo poi dover
comunque dichiarare ricavi ufficialmente non realizzati, vanificando quindi gli
sforzi e i rischi corsi per occultare ricavi al fisco. In altre parole,
semplificando, non avrebbe senso evadere le tasse non emettendo scontrini
fiscali se poi, in sede di dichiarazione dei redditi, si devono dichiarare
anche ricavi non realizzati. Se il problema, come pare, fosse proprio questo,
se ne dedurrebbe che lo strumento di accertamento fiscale d’eccellenza
utilizzato dal fisco in questi anni, ossia lo studio di settore, è uno
strumento del tutto arbitrario che non riesce a cogliere l’effettivo livello di
ricavi di un impresa. Quindi uno strumento e un metodo di accertamento del
tutto inattendibile, al punto da non contrastare l’evasione fiscale. Allora
perché continuare ad utilizzarlo e a fondarci la pretesa tributaria in sede di
accertamento?
Accanto all’evasione che buona parte
del mondo politico vorrebbe combattere limitando o azzerando l’utilizzo del
contante, c’è quella posta in essere dalla grandi multinazionali e dal sistema
bancario che con strumenti apparentemente leciti, tendono ad occultare ricavi
al fisco. Il più delle volte si tratta di strutture societarie complesse, spesse
residenti in paradisi fiscali, che vengono utilizzate per compiere transazioni
finalizzate proprio ad occultare ricavi al fisco e quindi essere soggetti ad
una tassazione più mite. Queste operazioni, che arrecano danni miliardari alle
casse dello Stato, non sono affatto poste in essere utilizzando moneta
contante, bensì moneta elettronica. Si riesce così a spostare fiumi di denaro
con un semplice clic e con altrettanta facilità ad occultare ricavi al
fisco. Il caso del Monte Paschi, banca tanto cara al Pd, ne costituisce
un esempio eloquente. In questo caso, si parla di presunte tangenti per
circa 3 miliardi di euro, che sono stati movimentati con un semplice clic.
LETTURE SUGGERITE:
Più tasse paghiamo e più voi sprecate e rubate.........basta fandonie, non siamo più disposti ad essere trattati come minus habens, caro Letta. Voi non avete rinunciato ad un solo centesimo delle vostre oltraggiose prebende e stipendi; la cassazione ha deliberato che il contributo di solidarietà delle pensioni d'oro è illegittimo, ma le pensioni dei comuni mortali, anche le minime, sono state decurtate in un silenzio assordante.......VERGOGNATEVI. E smettete di tirare in ballo la Costituzione solo quando fa comodo a voi, è ora di finirla questa commedia invereconda, non avete un briciolo di dignità e di amore per la vostra Nazione ed il suo Popolo.
RispondiElimina