Dopo l’incontro con
gli attivisti del Movimento 5 Stelle di Messina della
settimana scorsa ho ricavato diversi spunti di riflessione che vorrei portare
alla vostra attenzione. Innanzitutto confermo che il dibattito è stato
parecchio proficuo e stimolante, perché la base del Movimento 5 Stelle come
supponevo è molto sensibile a certi argomenti e interessata a capire come
stanno veramente le cose in Italia e in Europa. In secondo luogo si smentisce
ancora una volta la convinzione che alle persone poco avvezze e istruite in
economia bisogna parlare di cose semplici e facilmente imprimibili nella
memoria (debito pubblico, casta, corruzione, evasione fiscale), perché non in
grado di comprendere le reali cause della crisi e le possibili soluzioni. A mio
parere non esistono argomenti difficili e ostici da capire in assoluto, ma modi
difficili e ostici di spiegare le cose al fine di confondere le acque
e non fare capire nulla alla gente.
Quando invece ci sforziamo di parlare con un linguaggio chiaro, lineare e diretto, supportando le nostre parole con dati e fatti, la gente capisce. Altroché se capisce. E in questo senso l’opera di informazione e divulgazione deve essere ancora migliorata e portata ad un più alto livello di comprensione generale.
Quando invece ci sforziamo di parlare con un linguaggio chiaro, lineare e diretto, supportando le nostre parole con dati e fatti, la gente capisce. Altroché se capisce. E in questo senso l’opera di informazione e divulgazione deve essere ancora migliorata e portata ad un più alto livello di comprensione generale.
Con questo non voglio
dire che bisogna per forza semplificare e banalizzare certi concetti che di per
sé sono complessi e spinosi, ma operare in modo da creare un circolo virtuoso
fra i tecnici, gli economisti, gli specialisti che nei loro conclavi ristretti
e riservati devono sviscerare i dettagli della materia e gli informatori, i
divulgatori, ibloggers (categoria a cui io appartengo, nonostante
la mia formazione tecnica) che devono essere invece abili ad interpretare il
linguaggio a volte criptico dei primi, a ricavare la sostanza dei loro trattati
o interventi, e a rendere fruibile da tutti la disciplina economica. In questo
modo si riuscirà con il tempo e con molta pazienza a formare quella consapevolezza
collettiva diffusa, che è l’unico antidoto contro la propaganda di regime
in corso e la sola speranza di avvicinare il momento del provvidenziale cambiamento
di rotta culturale tanto auspicato. In questo lungo e accidentato
percorso, sarebbe buona cosa che ognuno si assumesse la responsabilità
delle proprie parole, del proprio linguaggio e del proprio ruolo,
cercando di mantenere un atteggiamento per quanto possibile collaborativo e
cooperativo con tutto il resto della filiera. Che poi diventi il Movimento
5 Stelle il fulcro politico ed istituzionale del cambiamento,
riuscendo a diventare un collettore credibile ed efficace di tutti i movimenti
sovranisti, antieuristi, democratici, ambientalisti disseminati nel territorio
nazionale, oppure nascerà unnuovo soggetto politico capace di portare avanti
meglio le nostre istanze e mantenere una linea strategica di lungo periodo più
coerente e determinata, questo lo vedremo nei prossimi giorni, settimane, mesi.
E non dipende sicuramente da noi. Ma da Beppe Grillo e dal suo
stuolo di consulenti italiani e stranieri, che ancora sono piuttosto incerti su
come e dove posizionarsi. Più a destra di Von Hayek (Stato ladro e libero
Mercato!) o più a sinistra di Keynes (Regolamentazione pubblica del
Mercato)? Questo è il dilemma.
Detto questo, una delle
richieste di chiarimento più interessanti e stuzzicanti che mi è giunta
dall’attento uditorio di Messina riguarda l’attuale posizione giuridica e
istituzionale della Banca d’Italia: è una banca centrale
pubblica o privata? Allora, senza volere riscrivere una storia
esaustiva dell’istituto dalle origini ad oggi, cerchiamo di fare un po’
d’ordine. Secondo quanto riportato nello Statuto (articolo 1), Banca d’Italia è un “ente
di diritto pubblico”, che opera in “piena autonomia e
indipendenza”, in quanto, al pari di tutte le altre banche centrali del
sistema europeo (SEBC, 1998), “non può sollecitare o accettare istruzioni
da altri soggetti pubblici o privati”. Quindi pur gestendo una materia
di diritto pubblico, la moneta a corso legale che tutti noi
siamo obbligati ad utilizzare, la Banca d’Italia ne fa un uso
privatistico ed esclusivo, perché non è obbligata o sottoposta a rendere
conto del suo operato a nessuno, men che meno al Governo democratico della
nazione: il suo obiettivo, in linea con quello della BCE, è il mantenimento
della stabilità dei prezzi e della bassa inflazione (soglia
del 2%). Tutto il resto poco interessa alla Banca d’Italia, fermo restando il ruolo
di controllo e vigilanza del sistema bancario nazionale. L’unico
collegamento che rimane ancora aperto con il governo italiano riguarda la
nomina del Governatore, che viene disposta con decreto dal Presidente della
Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio, in seguito ad un esplicito
suggerimento del Consiglio Superiore della stessa banca. Quindi, in forza
dell’autonomia e indipendenza, conseguenza diretta dell’adesione ai Trattati
Europei, nonostante lo Statuto le attribuisca il monopolio di uno strumento di
diritto pubblico (la moneta), la Banca d’Italia è un istituto
fondamentalmente privato, che a parte la tutela dei risparmi (e delle
rendite) tramite il controllo dell’inflazione,ha altri scopi rispetto alle
sorti e al benessere generale del paese, non avendo più fra l’altro alcuno
spazio di manovra per agire attivamente e direttamente nella vita politica ed
economica della nazione.
E non abbiamo parlato ancora
della questione della proprietà della Banca d’Italia, perché già
questo elemento di autonomia ed indipendenza unito al divieto europeo di
finanziamento diretto dei governi, ne fa un istituto appunto privato, slegato e
distante dal resto delle altre istituzioni pubbliche (Governo, Parlamento,
Magistratura, Pubblica Amministrazione etc). Tuttavia è chiaro che la posizione
attuale della Banca d’Italia deriva da un lungo processo di
trasformazione che ne ha stravolto nel tempo le funzioni e le
finalità. E per capire meglio come siamo arrivati a questa evidente
degenerazione istituzionale dobbiamo quindi vedere brevemente quali
sono stati i passaggi principali della metamorfosi storica e culturale.
La Banca d'Italia viene istituita con la legge n. 449 del 10
agosto 1893, dalla fusione di quattro
banche: la Banca Nazionale del Regno d'Italia (già Banca Nazionale degli Stati Sardi), la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito per le Industrie
e il Commercio d'Italia e dalla liquidazione
della Banca Romana e inizialmente il
suo ruolo prevedeva l’emissione della moneta e ilservizio
di tesoreria per conto dello Stato. Nel 1926 la Banca
d'Italia ottiene la concessione esclusiva sull'emissione della moneta,
estromettendo il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia.
La legge
bancaria del 1936, oltre a regolare il
sistema bancario nel suo complesso, assegna a Banca d’Italia ilcompito di
vigilare sulle banche italiane e le affida definitivamente la funzione
di emissione della moneta, eliminando la precedente concessione temporanea.
Una prima parte della legge (tuttora in vigore) definisce la Banca d'Italia “istituto
di diritto pubblico”: gli azionisti privati vennero espropriati
delle loro quote, che furono riservate a enti finanziari di rilevanza pubblica.
Alla Banca Centrale fu proibito lo sconto diretto agli operatori non bancari,
sottolineando così il suo ruolo di Banca delle banche (nonché
prestatore di ultima istanza). Una seconda parte della legge (abrogata quasi
interamente nel 1993, con l’approvazione del Testo Unico Bancario, TUB) fu dedicata alla vigilanza
creditizia e finanziaria: essa ridisegnò l'intero assetto del sistema creditizio
nel segno della netta divisione fra banca e industria e della separazione
fra credito a breve e a lungo termine, confermando la funzione di interesse
pubblico dell’attività bancaria. Le Banche di Credito Ordinario possono
operare solo su scadenze fino a 18 mesi, mentre gli Istituti di
Credito Speciale operano su scadenze superiori ai 18 mesi,
instaurando di fatto quella separazione fra banche commerciali e
d'investimento oggi tanto invocata. L'azione di vigilanza della Banca
d’Italia fu concentrata nell’Ispettorato per la difesa del risparmio e
l'esercizio del credito (organo statale di nuova creazione, oggi confluito nel CICR, Comitato
Interministeriale per il Credito e il Risparmio), presieduto dal
Governatore e operante anche con mezzi e personale della Banca d'Italia, ma
diretto da un Comitato di ministri presieduto dal capo del Governo: il legame
fra attività della Banca Centrale e Governo era quindi più che mai saldo e
indissolubile.
Questa struttura di
massima rimase operativa fino agli anni 80, quando fu ridisegnato l’intero
sistema in un’ottica di maggiore commistione fra settore bancario e
industriale (venne eliminato il divieto di finanziare direttamente il
sistema produttivo mediante l’acquisizione di partecipazioni), privatizzazione
degli istituti di diritto pubblico a forte partecipazione statale (San
Paolo, Monte Paschi di Siena, BNL, Banco di Napoli, Banco di Sicilia) e delle banche
di interesse nazionale controllate dall’IRI e quindi indirettamente
dallo Stato (COMIT, CREDIT, Banco di Roma, Casse di Risparmio, Banche Popolari,
Casse di Credito Cooperativo), maggiore apertura ai mercati finanziari
internazionali e deregolamentazione (furono
rimosse alcune norme che limitavano gli investimenti esteri diretti e di
portafoglio), fusione in grandi gruppi bancari senza specializzazione
specifica fra l’attività di credito e investimento. E in seguito a
queste riforme di stampo chiaramente neoliberista attuate in
quegli stessi anni un po’ dappertutto, il sistema bancario non solo italiano
iniziò a traballare, fino al sisma internazionale che ci troviamo ad affrontare
oggi. Prima degli anni 80 infatti, il periodo del dopoguerra era stato
caratterizzato da un’elevata stabilità finanziaria internazionale,
dovuta appunto alla forte regolamentazione esistente nel settore bancario e ai
vincoli rigidi di cambio imposti dagliAccordi di Bretton Woods del
1944, che in un certo senso limitavano l’azione della Banca Centrale e la
sua attività di supporto diretto sia alle banche private che ai governi
nazionali. Lo scenario mutò radicalmente a partire dal 1971, quando
la fine degli Accordi di Bretton Woods impose ai singoli Stati di rivedere il
ruolo, i compiti, le finalità e gli ambiti di competenza delle rispettive
Banche Centrali, che con diverse sfumature e gradazioni raggiunsero tutte una posizione
di maggiore autonomia e indipendenza rispetto ai governi nelle scelte
di politica monetaria.
Se come ci ricorda lo stesso ex presidente
e governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, a partire dal 1976 il
sostegno diretto della Banca d’Italia al governo tramite la funzione di
acquirente residuale dei titoli di stato era diventato una prassi
consolidata e giustificata più da ragioni storiche e congiunturali che da reali
vincoli di legge, la situazione era destinata rapidamente a cambiare dopo
l’ingresso dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo (SME) nel 1979,
che limitava di nuovo il raggio d’azione della Banca d’Italia in virtù del
vincolo di cambio imposto a livello continentale. La prima conseguenza dello
SME fu il famigerato “divorzio fra Banca d’Italia e Ministero di Tesoro” del
1981, tramite il quale con un semplice scambio epistolare privato il
ministro Beniamino Andreatta (foto sopra) e il governatore
Ciampi decretavano la fine dell’intervento della Banca Centrale nelle aste
pubbliche di collocamento dei titoli di stato come acquirente residuale. E
sappiamo purtroppo cosa ciò comportò in termini di aumento degli
interessi passivi a carico dello Stato ed esplosione del
debito pubblico: non potendo più calmierare le aste, la Banca d’Italia
lasciava in pratica alle banche private il compito di decidere volta per volta
a quale tasso di interesse dovevano essere collocati i titoli di stato e di
avvantaggiarsi delle enormi rendite di posizione. Nel 1991 Andreatta pubblicòun articolo sul Sole24ore per ricordare le ragioni
tecniche e strategiche di quella scelta e fare un bilancio deglieffetti
economici e politici del divorzio. In questa sede riprendo solo
due passaggi dell’articolo, lasciando ai lettori il compito di valutare tutto
il resto della “excusatio non petita, accusatio manifesta” del defunto
ex ministro (quando si dice che la morte ci rende uguali ed è l’unico elemento
a concedere davvero giustizia sulla terra: abbiate fiducia, prima o dopo anche
“loro” se ne vanno!).
“I miei consulenti legali mi diedero un parere
favorevole sulla mia esclusiva competenza, come ministro del Tesoro, di
ridefinire i termini delle disposizioni date alla Banca d' Italia circa le
modalita' dei suoi interventi sul mercato e il 12 febbraio 1981 scrissi la
lettera che avrebbe portato nel luglio dello stesso anno al
"divorzio". Il termine intendeva sottolineare una discontinuita', un
mutamento appunto di regime della politica economica;un'analoga operazione
che negli Stati Uniti pose termine nel 1951 alla politica di denaro facile,
che aveva permesso il finanziamento della Seconda guerra mondiale, e veniva
ricordata come l'agreement tra Tesoro e Fed”. Analisi completamente
sbagliata perché l’accostamento agli Stati Uniti è del tutto fuori luogo: se è
vero chel’Accordo americano del 1951 diede maggiore libertà alla Federal
Reserve di condurre una politica monetaria autonoma e
indipendente, ciò non decretò affatto il mancato sostegno e coordinamento
diretto fra Banca Centrale e Governo, anzi. In pratica la Fed era più libera di
fissare il tasso di interesse attraverso principalmente i suoi interventi di
mercato aperto, lasciando però sempre attivo il servizio di tesoreria
con possibilità di scoperto per conto del Governo e di acquisto
dei titoli di stato o sul mercato secondario o tramite il canale
diretto con il Governo: la Fed non partecipa alle aste primarie di collocamento
riservate alle banche private perché non ne ha tecnicamente bisogno e può
sempre, in qualsiasi momento, monetizzare il deficit pubblico con
il successivo scambio di titoli di stato, il cui tasso di interesse
viene quindi fissato congiuntamente a monte dal Governo e dalla Banca Centrale
stessa. Una situazione dunque diametralmente opposta al totale
scollegamento fra le due istituzioni a cui, grazie a Ciampi ed Andreatta, è
stata ridotta l’Italia dopo il divorzio del 1981. Separazione consensuale che è
bene ribadirlo è stata causata e venne poi drammaticamente acuita dalle
successive disposizioni, rese necessarie dall’adesione allo SME nel
1979, ai Trattati di Maastricht del 1992 e infine all’eurozona
nel 1999.
Con la legge n.82 del 7 febbraio 1992 si
stabiliva infatti che “le variazioni del tasso di sconto sono disposte
dal Governatore della Banca d’Italia con proprio provvedimento” e non
più dal Ministro del Tesoro, su proposta del Governatore della Banca d’Italia.
Questa legge, voluta fortemente dal Ministro del Tesoro Guido Carli (guarda
caso, anche lui, come Ciampi, Dini, Draghi, Padoa Schioppa, Saccomanni,
esponente di spicco della Banca d’Italia, essendone stato governatore dal 1960
al 1975), stabilisce in via definitiva che a decidere in piena autonomia sul tasso
di sconto del denaro sia esclusivamente il Governatore della Banca
d’Italia, estromettendo di fatto lo Stato dal processo decisionale e vietando
per legge un eventuale coordinamento fra i due enti. Un anno dopo, in esecuzione degli accordi europei di Maastricht che
impediscono alle Banche Centrali il finanziamento diretto degli Stati (articolo
123 del TFUE, Trattato sul
Funzionamento dell’Unione Europea),
il Parlamento approva la legge 483/93 che disciplina il servizio di tesoreria e proibisce
alla Banca d'Italia di concedere anticipazioni al Tesoro.
Il Governo mantiene ancora oggi
presso l'istituto di emissione un apposito conto corrente per il servizio di Tesoreria, la cui dotazione iniziale ammontava a 30.000
miliardi di lire. Su tale conto sono accreditate tutte le entrate incassate
dalla Banca d'Italia per lo svolgimento del servizio di tesoreria e da esso
sono detratte le spese a carico dall'Istituto. Qualora il saldo mensile del
conto risulti negativo, il Tesoro ha l'obbligo di ricostituire entro 3 mesi il
fondo. Se il saldo mensile risulta inferiore del 50% dell'ammontare del
deposito, il Tesoro è tenuto, in aggiunta, a presentare una relazione
giustificativa al Parlamento. Oltre a ciò, in base all'art. 6 della stessa
legge, se il conto presenta saldi a debito del Tesoro, la Banca d'Italia non effettua più pagamenti per il
servizio di tesoreria e applica
alle sofferenze del Tesoro il tasso ufficiale di sconto. Ricordiamo invece che fino a novembre del 1993 il conto di tesoreria del governo prevedeva la possibilità di scoperti ed era uno dei tradizionali canali di creazione di nuova base monetaria: Banca d’Italia, infatti, era obbligata ad anticipare
al Tesoro, tramite appunto gli scoperti sul predetto conto, fino al 14% delle spese correnti e in conto capitalepreviste in bilancio. Dopo il 1993 la Banca Centrale
diventa quindi a tutti gli effetti un ente passivo e non attivo nei confronti
dello Stato per quanto riguarda la gestione della politica economica e
monetaria: non può fare nulla per venire incontro alle esigenze del Governo e
quest’ultimo non ha alcuna possibilità di influenzare le scelte della banca.
“Senza presunzioni eccessive, questa lettera ha
segnato davvero una svolta e il divorzio, assieme all'adesione allo Sme (di cui
era un'inevitabile conseguenza), ha dominato la vita economica degli anni 80,
permettendo unprocesso di disinflazione relativamente indolore,
senza che i problemi della ristrutturazione industriale venissero ulteriormente
complicati da una pesante recessione da stabilizzazione. Naturalmente la
riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali
si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica,
aumentando il fabbisogno del Tesoro e l'escalation della crescita del
debito rispetto al prodotto nazionale. Da quel momento in avanti la vita
dei ministri del Tesoro si era fatta piu' difficile e a ogni asta il loro
operato era sottoposto al giudizio del mercato”. Grazie Andreatta, ci
ricorderemo di te e porteremo fiori sulla tua tomba per avere fatto decollare
il nostro debito pubblico a vantaggio esclusivo dei mercati finanziari e delle
banche private, il cui giudizio adesso si è sostituito a quello dei normali
processi democratici elettivi previsti dalla nostra Costituzione. Il fatto
poi di sapere perfettamente quali conseguenze disastrose avrebbe causato il
divorzio non attenua di certo la colpa del misfatto, perché se veramente si
volevamoralizzare i comportamenti dei politici italiani (tutti
ancora da dimostrare dato che il debito pubblico nel 1981 ammontava ad un
risibile 55% del PIL) si poteva procedere per altra via senza distruggere
la stabilità dei conti pubblici e a catena destrutturare
il delicato equilibrio dell’intera economia italiana, compresi i risparmi
delle famiglie e gli investimenti produttivi delle imprese. Costringere
qualcuno a fare determinate scelte puntando una pistola in testa non è certo il
miglior modo per convincerlo della giustezza di quelle scelte: se poi queste
ultime vengono fatte per avvantaggiare palesemente una certa categoria
di renditieri a danno dei lavoratori e delle piccole e medie aziende,
l’opera di convincimento diventa ancora più ardua e insensata.
Ovviamente il pretesto della riduzione
dell’inflazione tirato in ballo dall’ex ministro era ancora una volta
sbagliato:non essendoci alcun collegamento fra quantità di moneta circolante
ed inflazione (almeno nelle condizioni di elevata disoccupazione e
basso sfruttamento della capacità produttiva in cui si trovava all’epoca
l’economia italiana), era chiaro che quest’ultima fosse scesa per ben altri
motivi. In primo luogo la normalizzazione del prezzo del petrolio in
seguito alla fine dello shock petrolifero iniziato negli
anni 70. In secondo luogo le politiche deflazionistiche di abbattimento
dei salari dei lavoratori che con il governo Craxi del 1984 prima e
quello Amato del 1992 poi portarono alla definitiva abrogazione della
Scala Mobile. In terzo luogo il taglio della spesa pubblica,
sia nella parte corrente che in conto capitale, che si rendeva necessario per
far posto allamaggiore spesa per interessi e continuare a rimanere
entro la soglia del 3% di deficit pubblico imposto dagli accordi europei.
Infine, la maggiore difficoltà per le aziende a reperire nuovi fondi
per gli investimenti a causa del crescente onere per interessi da
corrispondere a finanziatori e banche. Un calo così drastico e repentino dei
fattori che influenzano la domanda aggregata, unito ad una
riduzione dei costi di produzione legati alle materie prime e al petrolio, non
poteva che condurre ad un prolungato periodo di stagnazione e
recessione economica, con conseguente discesa dei prezzi e dell’inflazione.
Non ci voleva mica un genio per capire che se chiudo contemporaneamente tutti i
rubinetti che alimentano l’economia di un paese, quest’ultima affronterà unlungo
ed inevitabile calvario di contrazione deflattiva. Con buona pace invece di
chi crede ancora che una maggiore offerta di moneta da parte della Banca Centrale crei
automaticamente maggiore inflazione, senza mai chiedersi come e
quando questa nuova moneta transita dai nebulosi circuiti bancari e finanziari
a quelli reali, nei nostri portafogli insomma. Come dice bene qualcuno, oggi
come oggi servirebbe davvero un elicottero che lancia le banconote direttamente
dal cielo!
Ma veniamo adesso all’intricata faccenda della proprietà
di Banca d’Italia. La legge bancaria del 1936, confermata nel vecchio
articolo 3 dello Statuto della Banca Centrale parlava abbastanza
chiaro: “Il capitale della Banca d’Italia è di 156.000 euro rappresentato da
quote di partecipazione di 0,52 euro ciascuna (4). Le dette quote sono
nominative e non possono essere possedute se non da:
a) Casse di risparmio;
a) Casse di risparmio;
b) Istituti di credito di diritto pubblico e Banche di
interesse nazionale;
c) Società per azioni esercenti attività bancaria risultanti dalle operazionidi cui all’ art. 1 del decreto legislativo 20.11.1990, n. 356;
d) Istituti di previdenza;
e) Istituti di assicurazione.
Le quote di partecipazione possono essere cedute, previo consenso del Consiglio superiore, solamente da uno ad altro ente compreso nelle categorie indicate nel comma precedente.
In ogni caso dovrà essere assicurata la permanenza
della partecipazione maggioritaria al capitale della Banca da parte di enti
pubblici o di società la cui maggioranza delle azioni con diritto di voto sia
posseduta da enti pubblici.”
Banca d’Italia era e doveva rimanere una Banca
Centrale pubblica. Tuttavia il processo di rapida privatizzazione del
settore bancario italiano, sancito dalla legge Carli-Amato, la n. 35 del 29
gennaio 1992 e culminato nell’approvazione del Testo Unico Bancario (TUB) del
1993 promosso dal governatore Ciampi, crea una contraddizione evidente fra ciò
che era riportato nello Statuto della Banca d’Italia e la realtà dei fatti,
anche se esisteva ancora in quegli anni il più stretto mistero e
riserbo istituzionale sui nomi dei reali proprietari dell’istituto: se
nessuno ce lo chiede, si pensava, noi non siamo obbligati a rispondere. A fare
la domanda fatidica ci pensa però un articolo di “Famiglia Cristiana“,
che il 4 gennaio del 2004, prendendo spunto da una ricerca
scientifica del Centro Ricerche e Studi di Mediobanca, spiega agli italiani la
clamorosa scoperta: “Stranamente la Banca d’Italia è una società per azioni
che appartiene a banche italiane e, in misura minore, a compagnie
d’assicurazione. E sorprendentemente l’elenco dei suoi azionisti è riservato.
Per fortuna ci ha pensato un dossier di Ricerche & Studi di Mediobanca,
diretta da Fulvio Coltorti, a scoprire quasi tutti i proprietari della Banca
d’Italia”. Come si può vedere dalla tabella sotto
che da tempo non subisce sostanziali variazioni (chi è questo pazzo
intenzionato ad uscire dalla proprietà di Banca d’Italia in cambio di poche
miglia di euro!), il capitale è per il 94,33% in mano a banche e assicurazioni
private. Solo il 5,67% è proprietà di enti pubblici, quali l’INPS e l’INAIL.
Assetto proprietario confermato dalla stessa Banca d’Italia, che messa alle
strette il 20 settembre 2005 ha reso pubblico l’elenco dei “partecipanti al capitale”.
Da questo momento in poi inizia una turbolenta
fase di imbarazzo istituzionale, con i governi che in varie forme e
tentativi hanno cercato di porre rimedio al pasticcio giuridico: come il
sillogismo aristotelico insegna se la Banca d’Italia è di proprietà delle
banche, le banche sono oggi private, segue che la Banca d’Italia è un istituto
privato al contrario di ciò che viene riportato nel suo stesso Statuto. E così,
per fare pace con il cervello, durante il governo Berlusconi viene
promulgata la legge n. 262 del 28 dicembre 2005, che ridefinisce “l’assetto
proprietario della Banca d’Italia“, e disciplina “le modalità di
trasferimento, entro tre anni dalla data di entrata in vigore della [...]
legge, delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in
possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti
pubblici“. Ad onor del vero il primo governo a
sollevare la questione era stato quello D’Alema con la
proposta di legge n. 4083 del 13 giugno 1999, presentata in
Parlamento ma mai approvata (immaginate perché?), la quale tentava di fissare
le “Norme sulla proprietà della Banca d’Italia e sui criteri di nomina del
Consiglio superiore della Banca d’Italia” e favorire il passaggio
del capitale azionario privato allo Stato (come è logico che sia): “Il
presente disegno di legge attribuisce al Ministero del tesoro, del
bilancio e della programmazione economica la titolarità dell’intero capitale
della Banca d’Italia, prevedendo altresì la incedibilità delle quote di
partecipazione [...]. Viene poi istituita una Commissione bicamerale avente
compiti di vigilanza sull’attività del Consiglio. Il governatore é tenuto a
relazionare la Commissione sull’operato e sulle attività svolte dal Consiglio
almeno una volta ogni sei mesi”.
Tre anni in Italia passano veloci che è un piacere e
banchieri e politici (categorie ormai intercambiabili e indistinguibili)
cominciano ad entrare in fibrillazione: bisognava impedire con tutti i mezzi il
passaggio allo Stato di Banca d’Italia, per mantenere inalterato quel regime di
commistione e opacità che esiste a tutti i livelli nel sistema bancario
nazionale. A tagliare la testa al toro ci pensa allora nel 2006 il
governo Prodi, con Padoa Schioppaministro
dell’economia, l’avvallo del presidente Napolitano, e la
supervisione per nulla disinteressata del governatore Draghi (un
quartetto da paura! Tutto il peggio della nomenklatura italiana dal dopoguerra
ad oggi!), che con il pretesto di riscrivere lo Statuto della Banca d’Italia
per adeguarlo ai principi e alle regole contenuti nella nuova legge sulla
tutela del risparmio e sulla disciplina dei mercati finanziari (legge n. 262
del 2005), va proprio a ribaltare di fatto la sostanza e il significato
dell’articolo 3, per giustificare la presenza degli azionisti privati e sancire l’uscita
definitiva dello Stato dall’istituto di emissione. Il nuovo
articolo 3 dello Statuto di Banca d’Italia che esce fuori in seguito
all’approvazione della legge n. 291 del 12 dicembre 2006, così
recita:
“Il capitale della Banca d’Italia è di 156.000 euro
ed è suddiviso in quote di partecipazione nominative di 0,52 euro ciascuna, la
cui titolarità è disciplinata dalla legge.
Il trasferimento delle quote avviene, su proposta del Direttorio, solo previo consenso del Consiglio superiore, nel rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza dell’Istituto e della equilibrata distribuzione delle quote”.
Questione chiusa: la Banca d’Italia non
solo è privatistica nelle funzioni, ma anche privata nella personalità
giuridica. Punto e a capo. Come sempre accade in Italia, invece di mettere
a posto le cose si cambiano e si stravolgono le leggi per lasciare le
cose come stanno. A questo punto però è necessario fare alcune precisazioni
per evitare confusione e fraintendimenti vari: il fatto che i proprietari di
Banca d’Italia siano privati, non significa che i proventi da signoraggio e
da altre attività ricavati dall’istituto vengano distribuiti alle banche, anche
perché si tratta di cifre irrisorie, rispetto al potere formale e
sostanziale enorme che ha (o avrebbe) una Banca Centrale al servizio
dello Stato di indirizzare la politica economica e monetaria di un
intero paese. Come ci ricorda la Cassazione, con la sentenza
16751 a sezioni riunite del 21 luglio 2006:
“la Banca d’Italia non è una società per azioni di
diritto privato, bensì un istituto di diritto pubblico secondo l’espressa
indicazione dell’articolo 20 del R.D. del 12 marzo 1936 n.375. La banca,
pertanto, segue regole di funzionamento differenti da quelle di una normale
società per azioni, come si evince anche dallo statuto, che assegna ai soci un
numero di voti non proporzionale alle azioni possedute (limitando i voti dei
soci maggiori). Gli azionisti di Banca d’Italia sono le banche (oggi private)
che discendono dagli istituti di credito (all’epoca pubblici) che nel corso del
tempo sono entrati nel suo capitale. La Banca d’Italia è stata una società per
azioni fino al 1936. In quell’anno venne convertita in Istituto di diritto
pubblico dall’articolo 3 della legge bancaria del 1936 (ovvero il sopra citato
regio decreto-legge 12 marzo 1936, n. 375, convertito, con modificazioni, dalla
legge 7 marzo 1938, n. 141, e successive modificazioni e integrazioni). Diciamo
che esiste una proprietà formale in capo ad azionisti oggi privati, ma la Banca
opera nell’ambito del diritto pubblico. Ciò implica, ad esempio, che lo status
giuridico di ente pubblico esclude la possibilità di fallimento della Banca
d’Italia e, tramite il suo intervento nei casi di crisi, la possibilità di
fallimento delle banche private, garantendo la stabilità dell’intero sistema
bancario italiano. Il capitale sociale della Banca ammonta a soli 156.000 euro,
versati nel 1936. Secondo l’articolo 3 dello statuto il capitale sociale “è
suddiviso in quote di partecipazione nominative di 0,52 euro ciascuna, la cui
titolarità è disciplinata dalla legge“. Le quote di partecipazione sono
costituite da certificati nominativi (art.4). Ai soci sono distribuiti
dividendi per un importo fino al 6% del capitale e, su approvazione del
Consiglio Superiore, un ulteriore 4% del valore nominale del capitale (art.39),
cui si aggiunge “una somma non superiore al 4% dell’importo delle riserve”
quali risultano dal bilancio dell’anno precedente prelevata dai frutti
annualmente percepiti sugli investimenti delle riserve, sempre su approvazione
del Consiglio superiore (art.40). Gli utili netti vengono per il resto
distribuiti come segue. Il 20% degli utili netti conseguiti deve essere
accantonato al fondo di riserva ordinaria. Col residuo, su proposta del
Consiglio superiore, possono essere costituiti eventuali fondi speciali e
riserve straordinarie mediante utilizzo di un importo non superiore al 20%
degli utili netti complessivi. La restante somma è devoluta allo Stato.
(art 39)”
Quindi rimarranno delusi tutti quelli che ancora credono che sia il signoraggio la parte più ingente e clamorosa della truffa, perché come vedete le cose non stanno esattamente così: pensare che una Banca Centrale guadagni dallo scarto fra valore nominale di una banconota e valore intrinseco di produzione è riduttivo (anche perché le banconote insieme alle monete metalliche costituiscono soltanto il 3% della moneta circolante), se confrontato conl’enorme potenzialità che avrebbe una Banca Centrale sottoposta alle direttive del Governo per finanziare la spesa pubblica, favorire piani di piena occupazione, rilanciare l’economia stagnante di un intero paese, tutelare l’ambiente e il patrimonio artistico, fornire sussidi e detassazioni alle aziende nazionali, garantire i diritti costituzionali a tutti i cittadini e chi più ne ha più ne metta. La vera truffa, l’inganno, il crimine è avere tolto ai Governi la possibilità di utilizzare le “proprie” Banca Centrali nell’interesse del bene nazionale e non ilsignoraggio che risulta soltanto la punta dell’iceberg di un contorto sistema di contabilità. Trascurando la quota irrilevante di moneta cartacea, se vogliamo analizzare meglio cosa fa una Banca Centrale ci accorgeremo che è vero che crea riserve elettroniche dal nulla, ma per comprare titoli finanziari che una volta venduti renderanno alla Banca le riserve elettroniche inizialmente create: bit del computer in cambio di bit del computer, non case, alberghi, ristoranti, aziende, forza lavoro etc. Il guadagno effettivo della Banca Centrale risulta dalla differenza fra l’interesse attivo che incassa sui titoli acquistati e l’interesse passivo che l’istituto di emissione deve corrispondere alle banche che riversano quelle stesse riserve presso i suoi conti di deposito. E come abbiamo visto buona parte di questo profitto torna nelle casse dello Stato sotto forma di dividendi, tasse e tributi. Tutto qui, non c’è altro. Non ci sono complotti mondiali sotto questa spiegazione.
La vera disdicevole questione legata alla proprietà
privata della Banca d’Italia riguarda invece il colossale conflitto di
interesse che esiste fra l’ente controllore e i controllati:
se i controllati sono i proprietari del controllore, come può quest’ultimo
garantire un’attività di vigilanza imparziale, trasparente, equa, efficace? E’
questo infatti il vero nodo da sciogliere intorno alla vergognosa faccenda
della proprietà privata di Banca d’Italia e basta guardare cosa accade in paesi
più civili e normali per capire che prima o dopo urgerà una soluzione politica
del problema istituzionale ancora irrisolto. La banca centrale inglese, Bank
of England, è interamentepubblica e ultimamente,
infischiandosene della sua stessa autonomia e indipendenza, ha dato addirittura
suggerimenti all’austero ed impacciato governo Cameron per uscire dalla crisi:
vuoi ridurre il debito pubblico, bene, non tartassare i cittadini, ma
cancelliamo insieme i titoli di stato che la Bank of England si ritrova a
bilancio. Soluzione naturale e logica, ma ovviamente il governo
oligarchico-liberista inglese non ha accettato perché preferisce che i costi
della crisi vengano addossati soltanto sui cittadini e si amplifichino le
disuguaglianze sociali. La banca centrale tedesca Bundesbank è
un istituto dello Stato al pari del Parlamento e del Governo.
I profitti della Bundesbank sono disciplinati per legge e ritornano nel
bilancio statale fino alla somma di 2,5 miliardi, mentre la parte eccedente
viene destinata ad un fondo speciale istituito per finanziare i costi della
riunificazione tedesca e vari programmi di sviluppo. La banca centrale
francese, la Banque de France, è anch’essa pubblica ed
è stata nazionalizzata nel lontano 1936, quando in effetti era ancora di
proprietà privata. Il controllo e l’influenza del Governo sulla Banque de
France sono rimasti intatti fino al 1993, quando in conseguenza dell’adesione
ai trattati europei lo Stato ha dovuto per forza di cose dichiarare l’assoluta
indipendenza e autonomia della Banca Centrale dal potere politico. I profitti
della Banque de France vanno per più della metà allo Stato, mentre il resto
viene distribuito tra fondi pubblici e altre riserve della stessa banca.
Quindi risulta concettualmente sbagliato dire che la BCE,
il cui capitale è suddiviso in quote fra le varie Banche Centrali europee, sia
una un ente privato, perché sarebbe più giusto affermare che si tratta di un istituto
ibrido semi-pubblico o semi-privato, dato che alcuni suoi membri azionisti
sono interamente privati, altri completamente pubblici e altri ancora metà
pubblici e metà privati. Ma ripetiamo che non è la natura giuridica pubblica e
privata la maggiore accusa da rivolgere all’istituto di Francoforte, ma il modo
in cui esercita la suafunzione di ente monopolista di emissione della moneta:
la BCE, alla stessa maniera delle Banche Centrali nazionali partecipanti, fa un uso
privato di uno strumento di diritto pubblico come la moneta, in conseguenza
della sua rivendicata autonomia e indipendenza e dell’esplicito divieto di
intrattenere qualunque forma di rapporto politico o finanziario con i governi
dei rispettivi Stati membri. Paradossalmente una banca centrale
interamente privata come la Federal Reserve americana
fa un uso più pubblico della disciplina monetaria rispetto alla BCE, dato che
mantiene stretti legami di collaborazione e cooperazione con il Governo e
il Congresso può in qualunque cambiare le direttive di politica monetaria della
Fed tramite decreto. Un esempio invece di Banca Centrale interamente pubblica
che fa un uso pubblico del suo potere monetario è laBank of Canada. Ma
noi siamo italiani, europei, mica canadesi! Purtroppo.
Tolta di mezzo la questione della proprietà, ci
sarebbe un’ultima osservazione da fare riguardo alla BCE. Come si può vedere
dalla tabella riportata sotto che mostra le quote di partecipazione
delle Banche Centrali nazionali europee al capitale della BCE, un’altra
enorme anomalia è rappresentata dalla presenza di Banche Centrali di
paesi, come l’Inghilterra o la Svezia, che non fanno parte dell’area
euro. Queste Banche Centrali non solo ricevono pro-quota i proventi di
gestione della BCE, ma tramite il Consiglio Direttivo influiscono sulle scelte
di politica monetaria riguardanti una moneta che loro stessi non utilizzano e
non hanno alcuna intenzione di adottare nemmeno in futuro. Siamo al paradosso
più assoluto, come se la Banca d’Italia potesse indirizzare le decisioni
della Federal Reserve, della Bank of England o della Bank of Japan. Una delle
tante assurdità implicite ma mai espressamente denunciante della follia
eurista: una volta accettato di aderire all’euro, il pacchetto di scemenze
logiche e degenerazioni mentali bisogna purtroppo prenderselo completo.
Questa lunga trattazione spero serva a far capire fondamentalmente una cosa agli attivisti del Movimento 5 Stelle, così come a tutti gli altri italiani che lentamente si stanno cominciando a svegliare dal torpore: da ora in poi la gente non si deve tanto indignare perché la Banca d’Italia o la BCE sono enti privati, ma perché fanno un uso privato di uno strumento di diritto pubblico, di una cosa nostra insomma, dato che la moneta esiste e circola in virtù di una nostra tacita accettazione e del corso legale che ci viene imposto per legge dal nostro Governo democratico. Invece di rivendicare la proprietà pubblica di Banca d’Italia, che oggi come oggi non cambierebbe nulla incastrati come siamo nella follia eurista (Francia e Germania hanno banche centrali pubbliche ma sono spacciati e ingabbiati come noi), le persone dovrebbero iniziare a battere i pugni affinché si ristabilisca quel rapporto di collegamento e cooperazione fra il nostro Governo e la Banca Centrale, così come accade in tutti i paesi civili, democratici e normali del mondo, anche e soprattutto a costo di uscire dall’area euro. Tuttavia, siccome i grandi cambiamenti epocali avvengono sempre per gradi, i deputati del Movimento 5 Stelle avanzino pure una proposta di legge in Parlamento per nazionalizzare la Banca d’Italia, in modo da portarci avanti con il lavoro e trovarci pronti quando saremo di nuovo in grado di rifondare uno Stato di Diritto Democratico e Civile in Italia. Non so con certezza quando questo avverrà, ma vi posso assicurare che non manca molto al momento della resa dei conti. I tempi sono ormai maturi o quasi.
Questo è su che la situazione economica non è facile e che il sistema bancario è a rettificare, ma siamo ottimisti. Avremo presto un nuovo governo e sapremo rimetterci su piedi!
RispondiElimina