di Paolo Cardenà-
Il Pd ha la maggioranza alla Camera, ma non al Senato.
Chiude le porte ad un governo con il PDL, ma si inginocchia davanti al M5S per
elemosinare qualche forma di sostegno. A breve verrà insediato il nuovo
Parlamento che, almeno nei numeri, sembra non esprimere alcuna maggioranza idonea
alla formazione del nuovo Governo. Bersani dice che non ha vinto le elezioni,
ma aggiunge che neanche le ha perse.
Quindi, secondo la sua idea, forte
dei 120 mila voti in più ottenuti alla Camera che, grazie al premio di maggioranza,
ha permesso al PD di ottenere un'ampia maggioranza in quel ramo del Parlamento,
egli stesso sarebbe il candidato naturale per ottenere da Napolitano un
incarico esplorativo per la formazione del nuovo Governo. Tutto in perfetto stile PD, insomma. Ma cosa
succederebbe se Bersani, dopo aver riscontrato di non avere i
numeri per la formazione di un governo, si intestardisse al punto da fare
ugualmente un passaggio nelle aule parlamentari e constatare lì, nelle sedi
istituzionali, la mancanza dei numeri? Su questo tema ci soccorrono
due scuole di pensiero costituzionale.
I costituzionalisti di area bersaniana (almeno gran parte di essi) sostengono che il capo dello stato, non essendo l’Italia una repubblica presidenziale, non può impedire a un politico che ha ricevuto l’incarico di andare alle Camere e farsi votare la fiducia e non è certo un caso che la storia del nostro paese sia piena di casi di governi di minoranza che si sono presentati in Parlamento senza una maggioranza costituita (tesi sostenuta venerdì in prima pagina sull’Unità da Marco Olivetti, docente di Diritto costituzionale di rito bersaniano). I costituzionalisti di area “quirinalizia” sostengono invece una tesi diversa che se fosse condivisa anche dal capo dello stato (come sembra) porterebbe Bersani a scontrarsi clamorosamente contro un muro che potrebbe essere davvero più resistente del previsto: naturalmente, quello di Napolitano.“Come sa chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la Carta – dice il costituzionalista Stefano Ceccanti, ex senatore Pd con buone entrature al Colle –anche l’incarico più pieno del mondo non è una delega in bianco ma è un semplice mandato a verificare se esista una maggioranza capace di supportare un governo in entrambe le Camere. E quando l’incaricato torna dal Presidente non c’è possibilità di contraddizione: o ha raccolto una maggioranza e ritira la riserva con cui ha accettato o rinuncia e l’iniziativa ritorna al presidente. Non è pensabile in termini di correttezza costituzionale che chi non ha la maggioranza chieda di essere nominato. E d’altra parte non si può chiedere al capo dello stato di autoridurre i suoi poteri in presenza di una situazione incerta che ne richiede invece l’esercizio attivo”. In sintesi, mentre il fronte bersaniano sostiene che il segretario avrebbe la forza costituzionale per “costringere” Napolitano a dargli il lasciapassare per portare il suo governo in Parlamento e farsi votare la fiducia, dall’altra parte il fronte quirinalizio considera l’ipotesi semplicemente irrealistica. E la questione ha un suo rilievo non solo “dottrinale” ma anche squisitamente politico: grazie alla fiducia che riceverebbe alla Camera, Bersani sarebbe il nuovo presidente del Consiglio, farebbe decadere (dal momento della nomina dell’esecutivo) il precedente governo (cioè quello Monti) e anche in caso di sfiducia al Senato risulterebbe il primo ministro sfiduciato ma in carica per gli affari correnti, cosa che permetterebbe al segretario di traghettare il governo fino a nuove elezioni e di seguire da Palazzo Chigi, per esempio, l’elezione del prossimo presidente della Repubblica.
“Il problema – dice Francesco Clementi, docente di Diritto pubblico comparato, sostenitore di Renzi – è che la nostra Carta non dice nulla sul modo in cui si deve formare un governo e dunque è comprensibile che ci sia qualcuno che cerchi di ‘piegare’ la Costituzione rispetto all’esito elettorale. Il punto però – dato curioso – è che a sostenere che il capo dello stato debba essere un notaio, e non il dominus nel processo di formazione del governo, sono le stesse persone che fino a due minuti fa ripetevano a squarciagola che l’Italia, da buona repubblica parlamentare, deve controbilanciare i poteri del premier con quelli del capo dello stato e deve combattere i leader che dimostrano di avere una visione plebiscitaria delle loro funzioni. Della serie: se quello che sta cercando di fare oggi Bersani l’avesse fatto Berlusconi, oggi il centrosinistra sarebbe già in piazza a difendere il capo dello stato e a gridare al golpe, facendo un girotondo e cantando l’inno nazionale…”.
I costituzionalisti di area bersaniana (almeno gran parte di essi) sostengono che il capo dello stato, non essendo l’Italia una repubblica presidenziale, non può impedire a un politico che ha ricevuto l’incarico di andare alle Camere e farsi votare la fiducia e non è certo un caso che la storia del nostro paese sia piena di casi di governi di minoranza che si sono presentati in Parlamento senza una maggioranza costituita (tesi sostenuta venerdì in prima pagina sull’Unità da Marco Olivetti, docente di Diritto costituzionale di rito bersaniano). I costituzionalisti di area “quirinalizia” sostengono invece una tesi diversa che se fosse condivisa anche dal capo dello stato (come sembra) porterebbe Bersani a scontrarsi clamorosamente contro un muro che potrebbe essere davvero più resistente del previsto: naturalmente, quello di Napolitano.“Come sa chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la Carta – dice il costituzionalista Stefano Ceccanti, ex senatore Pd con buone entrature al Colle –anche l’incarico più pieno del mondo non è una delega in bianco ma è un semplice mandato a verificare se esista una maggioranza capace di supportare un governo in entrambe le Camere. E quando l’incaricato torna dal Presidente non c’è possibilità di contraddizione: o ha raccolto una maggioranza e ritira la riserva con cui ha accettato o rinuncia e l’iniziativa ritorna al presidente. Non è pensabile in termini di correttezza costituzionale che chi non ha la maggioranza chieda di essere nominato. E d’altra parte non si può chiedere al capo dello stato di autoridurre i suoi poteri in presenza di una situazione incerta che ne richiede invece l’esercizio attivo”. In sintesi, mentre il fronte bersaniano sostiene che il segretario avrebbe la forza costituzionale per “costringere” Napolitano a dargli il lasciapassare per portare il suo governo in Parlamento e farsi votare la fiducia, dall’altra parte il fronte quirinalizio considera l’ipotesi semplicemente irrealistica. E la questione ha un suo rilievo non solo “dottrinale” ma anche squisitamente politico: grazie alla fiducia che riceverebbe alla Camera, Bersani sarebbe il nuovo presidente del Consiglio, farebbe decadere (dal momento della nomina dell’esecutivo) il precedente governo (cioè quello Monti) e anche in caso di sfiducia al Senato risulterebbe il primo ministro sfiduciato ma in carica per gli affari correnti, cosa che permetterebbe al segretario di traghettare il governo fino a nuove elezioni e di seguire da Palazzo Chigi, per esempio, l’elezione del prossimo presidente della Repubblica.
“Il problema – dice Francesco Clementi, docente di Diritto pubblico comparato, sostenitore di Renzi – è che la nostra Carta non dice nulla sul modo in cui si deve formare un governo e dunque è comprensibile che ci sia qualcuno che cerchi di ‘piegare’ la Costituzione rispetto all’esito elettorale. Il punto però – dato curioso – è che a sostenere che il capo dello stato debba essere un notaio, e non il dominus nel processo di formazione del governo, sono le stesse persone che fino a due minuti fa ripetevano a squarciagola che l’Italia, da buona repubblica parlamentare, deve controbilanciare i poteri del premier con quelli del capo dello stato e deve combattere i leader che dimostrano di avere una visione plebiscitaria delle loro funzioni. Della serie: se quello che sta cercando di fare oggi Bersani l’avesse fatto Berlusconi, oggi il centrosinistra sarebbe già in piazza a difendere il capo dello stato e a gridare al golpe, facendo un girotondo e cantando l’inno nazionale…”.
Ad ogni buon conto, qualora le forze parlamentari non riuscissero
ad accordarsi sulla nomina di un nuovo
Governo capace di governare, in mancanza della possibilità di avere un
esecutivo con lo scopo di riformare almeno la legge elettorale, non
resterà che tornare nuovamente alle urne. Ma in questa ipotesi, siccome
il Presidente della Repubblica in carica, negli ultimi sei mesi del
suo mandato (il mandato di Napolitano scade il 15 maggio prossimo), non
può provvedere allo scioglimento delle camere, occorrerà attendere
l'elezione di un nuovo Presidente della Repubblica che, a quel punto, dopo aver
nuovamente constatato l'impossibilità di formare un nuovo esecutivo, non avrà
altra possibilità che sciogliere le camere e indire nuove elezioni. A questo
punto è opportuno segnalare che il nuovo Presidente della Repubblica verrebbe
eletto da un Parlamento di prossimo scioglimento, la cui composizione
potrebbe essere profondamente modificata in caso si dovesse andare a nuove
elezioni. Quindi, il Presidente potrebbe essere espressione di forze politiche
profondamente mutate nelle sue composizioni parlamentari. Stando al quadro
sopra descritto e ai quorum deliberativi previsti per l'elezione del Presidente della
Repubblica, è sufficientemente plausibile immaginare che il prossimo inquilino del Quirinale, sarà un uomo vicino al PD, con spiccata convinzione europeista allo scopo di
rassicurare i Paesi del nord Europa circa la devozione dell'Italia allo
scacchiere dell'Eurozona. Tant'è che nei giorni scorsi erano circolati i nomi
di Prodi, D'Alema e Amato. Tutte anime pure (si fa per dire) europeiste del PD quali possibili candidati, nonostante, oltre il 70% degli italiani. si siano espressi negando il voto al PD.
Tuttavia, il rischio di andare a nuove elezioni con
l'attuale sistema elettorale, è proprio quello di un ulteriore stallo nella
vita istituzionale della Repubblica, qualora i risultati delle urne non
riconsegnino una maggioranza numericamente ben definita, sia alla Camera che al
Senato. Un rischio che l'Italia evidentemente non può permettersi, e che
rischia di precipitare nel caos l'intero Paese, stando il deteriorarsi delle condizioni economiche e sociali in ampi strati della popolazione sempre più frustrata da condizioni di crescente indigenza. Non a caso,
nei giorni scorsi, l'agenzia di rating Fitch, ha declassato l'Italia a BBB+
ponendola ad un passo dal livello "spazzatura", e Moody's ha già
avvertito che l'Italia rischia un ulteriore declassamento proprio per lo status
di ingovernabilità in cui è precipitata.
A questo punto non so bene se sia un vantaggio la costituzione di un governo di parvenza o una situazione di collasso palese. Forse servirebbe una catarsi profonda e feroce per far si che si sgretoli "obtorto collo" tutto l'impianto europeo. L'Italia appare ormai come una bestia agonizzante e non saranno le ricette dei soliti noti a risollevare la situazione. Occorre uscire dall'Euro e tornare alla Lira, tutto il resto viene dopo.
RispondiEliminaSi, penso anche io che sia l'unica opzione percorribile a morte certa.
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