di Paolo Cardenà- Quando in questo
strano Paese si parla di imposta patrimoniale, la mente tende a correre al lontano
1992, quando l’allora Presidente del Consiglio Giuliano Amato operò, durante la
notte, un prelievo una tantum del 6 per mille sulle giacenze dei conti correnti.
Che poi, a dirla tutta, il 1992, non
sembra essere così lontano, viste le pessime condizioni economiche in cui lo
Stato versa, ora come allora. Anzi, oggi la situazione appare ben più complessa
e con margini di soluzione drammaticamente ridotti rispetto ad allora.
Ad ogni
buon conto, venendo al tema che ci occupa, va subito precisato che, benché in
forme differenti rispetto al 1992, imposte patrimoniali sono già presenti nel nostro ordinamento
tributario e si chiamano principalmente IMU e Imposta sostitutiva sulle attività
finanziarie; ma ne esistono anche altre minori. Al netto delle modalità censurabili
con cui venne effettuato il prelievo dai conti, a
differenza della patrimoniale di Amato del 1992, quelle attuali sono addirittura
più invasive poiché, essendo strutturali, colpiscono periodicamente le attività
possedute in forma di patrimonio immobiliare e attività finanziarie (conti
correnti, fondi comuni, dossier titoli ecc ecc). Qualche settimana fa, il
premier Monti, si è lasciato andare ad una dichiarazione (poi smentita per
mezzo del sito del Governo), secondo la
quale si starebbe studiando un'applicazione dell’imposta patrimoniale. Già, con
un precedente articolo, ho anticipato che l’applicazione di una imposta
patrimoniale, sarebbe un arduo esercizio soprattutto per colpire taluni
categorie di cespiti.
Quindi, cerchiamo di ragionare sul tema al fine di capire
in che modo potremmo essere colpiti da ulteriori imposte patrimoniali, e quali difficoltà potrebbero riscontrarsi
nell’applicazione di una simile imposta.
Preliminarmente, va osservato che
il governo potrebbe contare su un ”extragettito”, semplicemente inasprendo il
prelievo fiscale sulle imposte patrimoniali già in essere. Ciò
potrebbe esser fatto agevolmente alzando le aliquote del prelievo sia per
l’IMU, che per l’imposta sostitutiva sulle attività finanziarie. Nel caso
dell’IMU, inoltre, per ottenere lo stesso risultato, ad aliquote immutate ,
sarebbe sufficiente una rivalutazione degli estimi delle proprietà immobiliari,
tali da attribuire agli immobili un valore superiore, aumentando così la base imponibile da colpire e favorendo quindi un aumento di gettito. Questa
soluzione, per quanto di facile applicazione, presenterebbe comunque delle
controindicazioni delle quali il Governo dovrebbe tenerne conto, almeno si
spera. Innanzitutto, nel pensare ad un
eventuale inasprimento del prelievo fiscale relativo alle imposte patrimoniali
già presenti, non si potrebbe non tenere in considerazione gli effetti che
questo determinerebbe alla luce del
quadro congiunturale decisamente negativo e che, come abbiamo ripetutamente
avuto modo di scrivere in questo sito, sta colpendo duramente il reddito
disponibile delle famiglie.
In tal senso, ad esempio, un aumento della
struttura impositiva dell’IMU (realizzata attraverso un aumento delle aliquote,
o anche attraverso una rivalutazione della base imponibile), rischierebbe di
essere troppo severo o addirittura
insostenibile per coloro che non dispongono di una capacità di reddito
adeguata, per poter sopportare un esborso aggiuntivo rispetto a quanto pagato
in ragione alle regole attuali. Esemplificando, si pensi a due contribuenti
che hanno un patrimonio immobiliare del tutto simile; ma il primo ha un reddito
derivante dalla sua attività di impresa o da lavoro dipendente, mentre, il
secondo, non dispone di alcun reddito o, nella migliore delle ipotesi, ne
dispone in maniera sensibilmente ridotta a causa della crisi in atto. Ne
deriverà che il primo, benché con qualche restrizione o rinuncia, potrà provvedere al pagamento
dell’imposizione aggiuntiva, mentre il secondo non sarà nella condizione di
sostenere alcun aumento.
Si consideri inoltre che, un eventuale aumento
dell’imposizione, per quanto limitato che sia, andrebbe a colpire il reddito
disponibile delle famiglie, e pertanto
produrrebbe una ulteriore
contrazione dei consumi e quindi aggraverebbe anche il ciclo economico, già
pessimo di suo. Questo, inoltre, potrebbe comportare una diminuzione più o meno
marcata della capacità di rimborso dei mutui al sistema bancario, impattando
sugli istituti di credito che, a quel
punto, si troverebbero nella condizione
di dover esporre ulteriori sofferenze
potenzialmente idonee ad abbatterne il patrimonio, aggravando così una situazione già complessa.
Tutt'altro ragionamento potrebbe esser osservato in caso di aumento delle
aliquote patrimoniali sulla ricchezza finanziaria, ossia quella investita in
titoli, obbligazioni, azioni, fondi comuni ecc. In questo caso, benché sia già
prevista una imposta sostitutiva dell’0.1 per mille fino a determinati patrimoni,che
verrà aumentata del 50% il prossimo anno, ciò che rende possibile un ulteriore
inasprimento dell’imposizione fiscale, risiede proprio nella natura
dell’investimento stesso. E cioè, il
fatto che questo sia “immobilizzato” e quindi potenzialmente escluso dal
soddisfacimento diretto dei bisogni, e quindi dal sostenimento del ciclo economico attraverso la spesa di parte delle risorse investite.
soddisfacimento diretto dei bisogni, e quindi dal sostenimento del ciclo economico attraverso la spesa di parte delle risorse investite.
In
altre parole, proprio perché sono risorse investiste in attività finanziarie,
in un certo qual modo, sfuggono dalla disponibilità del titolare e quindi anche
dalla possibilità di spesa, seppur con le dovute eccezioni del caso. Il
risparmiatore, nel sostenimento delle proprie spese, difficilmente intaccherà le
risorse investite in strumenti finanziari anche se, in questa crisi, ciò potrebbe essere parzialmente smentito,
poiché sempre più frequente sembra essere il ricorso all’utilizzo di risparmi
per integrare o sostituire un reddito che si è contratto o è venuto meno per
effetto della crisi. Quindi, in teoria, il governo potrebbe intervenire per inasprire
l’imposizione sulla ricchezza finanziaria, senza con ciò determinare, in
maniera proporzionale, una diretta diminuzione
dei consumi.
Ma anche una simile impostazione potrebbe risultare del tutto
discriminante per talune categorie di investimenti o di cespiti, che potrebbero
essere oggetto di imposizione. Si pensi, ad esempio, a due risparmiatori che
dispongono entrambi di un patrimonio di 500.000 euro e che uno di questi abbia
investito i propri risparmi in fondi comuni, mentre il secondo acquistando un
immobile. Ebbene, nel primo caso, operare un prelievo a fronte dell’entità del
patrimonio, risulterebbe di agevole portata poiché basterebbe aumentare l’aliquota
di imposizione e la società di gestione
del fondo comune o l’intermediario finanziario provvederebbe immediatamente ad
operare la ritenuta, anche vendendo titoli per crearsi la liquidità necessaria
al pagamento dell’imposta. Analogo ragionamento potrebbe essere svolto nel caso
di azioni o obbligazioni in custodia su un dossier titoli intrattenuto presso
qualsiasi banca. La quale banca, in questo caso, addebiterebbe l’importo
dell’imposta sul conto corrente agganciato.
E nel caso non si dovesse
disporre della liquidità necessaria al pagamento dell’imposta, che si fa? In
estrema ratio, si potrebbe comunque vendere dei
piccoli quantitativi di titoli ed integrare il saldo del conto corrente,
in modo da poter consentire alla banca di operare il prelievo necessario al
pagamento dell’imposta. Una soluzione simile a quella appena descritta,
potrebbe comunque avere delle controindicazioni soprattutto nel caso in cui
dovessero essere introdotte delle patrimoniali straordinarie o una tantum; ma
di questo parleremo in seguito. Come dicevamo, il discorso si complica, e non
poco, nel caso di immobili. Il risparmiatore che ha investito le sue
disponibilità, magari prosciugandole, nell’acquisto di un immobile avvenuto in
tempi di vacche grasse, oggi potrebbe trovarsi nella condizione di non poter
provvedere al pagamento dell’imposta patrimoniale, magari aumentata rispetto
alle aliquote attuali. In questo caso, il contribuente in esame, non potrà
certamente vendersi una frazione dell’immobile per poter provvedere all’obbligazione
tributaria. E ciò per evidenti ragioni. E in questo caso, cosa si potrebbe
fare? A questo interrogativo, al
momento, non è stata fornita alcuna risposta a mio avviso praticabile. A meno
che non si facciano suonare le trombe della cavalleria e, attraverso l’ente di
riscossione (Equitalia), si aggredisca il patrimonio del contribuente. Ma
questo, a parer di chi scrive, cozzerebbe con gli elementi cardine di uno stato
democratico e di una economia avanzata: ossia la tutela del risparmio e della proprietà privata, peraltro
prevista costituzionalmente.
Inoltre, l’immobile acquistato potrebbe essere
assistito da ipoteca a fronte del mutuo contratto per l’acquisto; quindi una
passività. E’ evidente che, dal punto di vista del contribuente, è del tutto
legittimo considerare a scomputo del valore del cespite da colpire con imposta,
anche le passività finanziaria a fronte dell’acquisto, e quindi l’eventuale
mutuo. Aspetto, questo, che avrà comunque una marcata rilevanza in caso di
applicazione di imposte a carattere straordinario,
poiché, queste, verosimilmente, oltre ad impattare in modo più significativo,
sconterebbero aliquote progressivamente più alte in ragione del patrimonio
posseduto. Quindi, nel rispetto di elementari ed intuibili principi di
equità, sarebbe discriminante colpire in
maniera identica due patrimoni, nel caso in cui
uno di questi risulti assistito da un mutuo (quindi una passività),
ancorché esprimano identici valori patrimoniali. In buona sostanza, se così fosse, verrebbe
confermata l'attuale impostazione dell’IMU che, come noto, colpisce il “valore”
degli immobili a prescindere dall’eventuale passività (mutuo) in capo
all’immobile stesso, rendendo l’imposta profondamente iniqua. Senza dimenticare
poi, che un ulteriore inasprimento dell'imposizione tributaria sugli immobili,
causerebbe nefaste conseguenze anche sul valore, deprimendolo
ulteriormente. Circostanza, questa, che non esaurirebbe i suoi effetti solo in
capo al proprietario dell'immobile che, a quel punto, si vedrebbe diminuire il
valore dell'immobile; ma produrrebbe effetti pericolosi anche nel mondo
bancario attraverso la diminuzione dei valori posti a garanzia di eventuali
mutui, con conseguenze del tutto immaginabili. In questo, la Spagna insegna
molto.
Come abbiamo
visto sin qui, un inasprimento della imposizione patrimoniale presenta numerose
difficoltà applicative, soprattutto se
si dovesse agire nel rispetto dei principi di equità che dovrebbero essere comunque
garantiti ed imprescindibili. Ma, sotto questo profilo, benché l’azione del governo
in carica sia stata ispirata a criteri di equità, l’esperienza empirica ci
porta ad affermare con certezza che questo carattere e' risultato del tutto
latente nell’azione di governo.
Alle imposte
patrimoniali presenti nel nostro ordinamento, sebbene abbiano carattere strutturale e quindi
ripetute negli anni, appartiene, tutto
sommato e con qualche sacrificio, la caratteristica della sostenibilità in
termini di possibilità da parte del contribuente di poter adempiere
all’obbligazione tributari; benché in un contesto di deterioramento delle
capacità reddituali e di evidenti difficoltà, soprattutto in taluni strati della popolazione. L’applicazione di una imposta patrimoniale
straordinaria, troppo spesso impropriamente evocata da parte dei nostri politici
(Bersani in primis), verosimilmente, viene
pensata sulla base di un feroce inasprimento
delle aliquote impositive, tale da poter
utilizzare il gettito straordinario ad abbattere in modo proporzionale il debito
pubblico per qualche centinaio di miliardi. Senza addentrarci nei numeri che, a
parer di chi scrive, smentiscono (almeno in via di principio) le aspettative di
gettito auspicato dai vari politici che evocano l’introduzione di una
patrimoniale straordinaria, vediamo come possono complicarsi le cose nel caso
che questa imposta venga effettivamente introdotta. Andiamo in ordine.
E’
evidente che l’eventuale applicazione di una imposta patrimoniale feroce e
magari progressiva, dovrebbe quantomeno considerare non solo i patrimoni facilmente
colpibili come nel caso delle imposte già in vigore, ma l’intera ricchezza del soggetto o del nucleo famigliare a cui
l’imposta è rivolta. E ciò per evidenti ragioni di equità impositiva secondo
cui, chi più possiede, più paga in
termini di imposta. E quindi, cosa comprendere? Cosa potrebbe
essere considerato nella definizione di patrimonio? Sicuramente gli immobili,
anche perché offrono un' ottima base imponibile che, tuttavia, dovrebbe quantomeno essere abbattuta delle
passività (mutui) . Certamente anche il patrimonio mobiliare (azioni, titoli,
obbligazioni, depositi ecc ecc). Ma, oltre questa ricchezza, peraltro già
ampiamente tassata, cos'altro potrebbe essere considerato nella definizione di
patrimonio del contribuente? E qui, potremmo sbizzarrirci con tutto ciò che
possa costituire asset suscettibile di
valutazione economica, purché visibile ed individuabile dal fisco. Ecco quindi
che potremmo considerare il valore della partecipazione ad una società ancorché
non quotata, il valore della nostra impresa, o una barca, un'automobile, e
quant'altro possa essere individuato e
definibile nella sua dimensione patrimoniale.
Sicuramente, l’estensione
delle tipologie di assets a cui applicare l’imposta patrimoniale, oltre ad
offrire una base imponibile tanto più ampia quanto più estese saranno le specie e i volumi di patrimonio
considerati, tenderebbe a favorire il
rispetto di elementi di maggior equità. Tuttavia, qui emergerebbero fin da subito le prime
difficoltà applicative. Innanzitutto, non sempre ciò che costituisce un valore
patrimoniale è ben identificabile ed individuabile da parte del fisco. Si
pensi, solo per citare alcuni esempi, a dei
quadri di valore, a delle opere
d’arte, a vasi antichi, o una collezione
di arazzi. Questi, in genere, sono beni che talvolta possono rappresentare dei
grandi valori, ma difficilmente
intercettabili da parte del fisco, poiché raramente censiti e quindi conosciuti
all'anagrafe tributaria nella dimensione
patrimoniale (valore) e nella sua collocazione. Ma questi, non sono gli unici
valori patrimoniali che potrebbero sfuggire all’interesse del fisco. Si pensi,
ancora, al denaro contante, a monetati aurei, a lingotti in oro o altri metalli preziosi,
detenuti anche fuori dal perimetro bancario. Ecco quindi che, in questi casi, risulta
impossibile che il fisco possa colpire beni di cui non ne conosce il valore e
soprattutto la collocazione.
Ragionando invece su altre tipologie di patrimoni quali, ad esempio, aziende, quote di partecipazione in società, o più
semplicemente una piccola impresa individuale, si porrebbe il problema di
attribuire un valore a queste attività, che tenga conto di moltissime variabili
e fattori, attraverso i quali, tuttavia, non sempre si riesce a valorizzare in maniera
pertinente l’esatto valore di questi patrimoni. E ciò, neanche attraverso
apposite perizie effettuate da professionisti. Il rischio, quindi, è proprio
quello di subire una valorizzazione amministrativa da parte dello Stato
attraverso delle procedure che, in
maniera più o meno arbitraria, possano valorizzare determinati asset. In
sostanza, è un po’ come oggi avviene con gli studi di settore per la quantificazione
dei redditi di impresa. E in anche questo caso, l’esperienza ci conferma quanto possano risultare arbitrarie
e non pertinenti la determinazione del fisco. Inoltre, nel caso di imposte
patrimoniali applicate ad imprese o aziende, c’è da dire che queste
comporterebbero anche un ulteriore abbattimento della competitività della
imprese che, a quel punto, dovrebbero compensare la compressione di redditività
patita con l’imposta applicata,
attraverso un aumento di prezzi che le renderebbero ancor meno competitive, aggravando una situazione già di per se
critica.
Chiarito ciò, resta ora da verificare
quali potrebbero risultare i cespiti più facilmente colpiti dall’applicazione
dell’imposta. Come abbiamo visto, gli investimenti finanziari (ossia in titoli
di stato, polizze fondi comuni, azioni ecc) per loro natura, si prestano ad essere colpiti con maggiore attitudine
rispetto ad altre tipologie di investimenti. Ma anche in questo caso, l’applicazione
di una imposta patrimoniale straordinaria fortemente invasiva in termini di
prelievo fiscale, rischierebbe di produrre più danni che guadagni. Pensiamo, ad
esempio, ad un pacchetto di azioni
detenute da un risparmiatore, supponiamo per 100.000 euro, che vengano colpite da un imposta
straordinaria di qualche punto percentuale. In questo caso, se il risparmiatore
non dovesse disporre di liquidità sufficiente per provvedere al pagamento dell’imposta, egli
sarebbe costretto a liquidare parte del
proprio investimento al fine di ottenere le risorse necessarie per provvedere
al pagamento dell’imposizione tributaria. Questo, se effettuato su scala rilevante, determinerebbe
pericolose distorsioni di mercato. Si pensi, ad esempio, alla caduta dei prezzi
che si potrebbero determinare su un titolo: il risparmiatore ne risulterebbe
doppiamente penalizzato poiché, oltre a subire una diminuzione del patrimonio
per effetto dell’imposizione fiscale, subirebbe anche il deprezzamento del proprio portafoglio titoli per effetto
delle vendite sui titoli. Questo appare tanto più vero nel nostro mercato finanziario,
il quale, essendo di modeste dimensioni, risulta particolarmente esposto alla
possibilità di variazione di prezzi anche con capitali relativamente esigui.
Inoltre, ciò rischierebbe di avvantaggiare investitori stranieri (quindi
esenti da imposta) che, in quest’ultimo caso, potrebbero acquistare pacchetti
azionari a buon mercato per effetto
della depressione dei prezzi causata da una patrimoniale feroce. Evidentemente le conseguenze nefaste non si esaurirebbero con le casistiche appena
descritte, ma andrebbe ben oltre.
Discorso analogo potrebbe essere effettuato
per le obbligazioni societarie o con i titoli di stato. Ma, in quest’ultimo
caso, occorre effettuare qualche ulteriore ragionamento in virtù del fatto che,
il titolo di stato, essendo un debito dello Stato che si vorrebbe abbattere proprio
attraverso l’imposizione patrimoniale straordinaria, lo Stato potrebbe essere
tentato di operare una compensazione tra il suo credito derivante
dall’imposizione tributaria e il suo debito rappresentato dal titolo di Stato nel
portafoglio del risparmiatore. In altre parole, in questo caso, laddove non si dispongano di risorse necessarie per
poter corrispondere l’imposizione tributaria, lo Stato potrebbe effettuare una compensazione
tra il proprio credito (imposta patrimoniale) e il proprio debito (titolo di
stato), diminuendone o azzerandone gli
interessi previsti o, nei casi più “estremi”, decurtandone il capitale
alla scadenza del titolo. In buona sostanza, un default mascherato da una
patrimoniale.
Relativamente a questa eventuale tentazione, sussistono elementi che dovrebbero indurci a
riflettere. In primo luogo l’applicazione di una imposta patrimoniale feroce,
verosimilmente, andrebbe a colpire anche i fondi pensione e i fondi
assicurativi, verso i quali un numero non del tutto indifferente di
risparmiatori hanno riposto le speranze
per ottenere l’integrazione
pensionistica, al fine di integrare (o
sostituire) la pensione erogata dai vari enti previdenziali. Sotto questo punto di vista, le scelte del
governo volte all’applicazione di una imposta patrimoniale straordinaria,
contrasterebbero con le politiche di welfare e con le varie riforme
pensionistiche varate negli ultimi 10 anni, o forse più. Al riguardo, vale la
pena ricordare che tali politiche hanno impresso uno stimolo allo sviluppo di
forme pensionistiche alternative, capaci di integrare i flussi finanziari del risparmiatore in età
pensionabile, al fine di arginare la progressiva diminuzione delle prestazioni
garantite dai veri enti pensionistici. Non un problema da poco, direi.
Un
ulteriore ragionamento, possiamo farlo a proposito dello stock di debito pubblico in mani italiane che,
come è noto, fino a circa un anno fa era di circa il 50%. Percentuale relativamente
esigua se considerassimo che la necessità di ottenere un gettito tributario
rilevante varia anche in ragione della base imponibile da colpire, oltre che
alla relativa percentuale di imposta. Tuttavia, in questi ultimi mesi, per
diverse ragioni che abbiamo avuto modo di
discutere in questo sito, il debito in mani italiane è aumentato fino al
70%; ossia è aumentata la base imponibile da colpire all’interno del perimetro
nazionale. Ma è anche vero che a questo rimpatrio dei titoli di stato ha
contribuito per lo più il sistema
bancario italiano che, grazie ai finanziamenti della BCE, si è sostituito ad
investitori esteri in fuga dall’Italia. L’applicazione di una imposta
patrimoniale straordinaria all’interno della nazione, contrasterebbe anche con
le precarie condizioni in cui versa il sistema bancario nazionale che, nel caso
di patrimoniale sui titoli di stato, potrebbe vedersi colpiti anche i propri
titoli, determinando così delle perdite. Quindi, ipotesi inverosimile, a parer di chi scrive,
e per diverse ragioni. Ma, escludere il sistema bancario dall’imposizione
patrimoniale, significherebbe anche dover patire una riduzione sensibile della base imponibile da
colpire e quindi, a parità di aliquote, un minor gettito tributario. Che fare quindi?
Semplice
rispondere. Sarebbe sufficiente che il sistema bancario collocasse i propri titoli di stato alla
clientela privata o veicolasse questi nei fondi comuni gestiti dalle società di
cui le banche sono azioniste e il gioco sarebbe fatto. Ecco qua ricostituita un ampia base
imponibile da colpire, a scapito dei contribuenti e dei risparmiatori. Questa
pratica, che di fatto consisterebbe nel
ribaltare i rischi dei titoli in portafoglio sui risparmiatori, è pratica nota
al sistema bancario italiano. Tutti ricorderanno con quanta solerzia, in
passato, le nostre banche, poco prima dei rispettivi default, hanno scaricato su ignari risparmiatori le loro
obbligazioni Parmalat, Cirio o quelle argentine e molte altre ancora. L’esito
di questo censurabile modus operandi è a tutti noto.
Ma ritornando al
ragionamento che interessa, veniamo ad una bizzarra e fantasiosa imposta patrimoniale ipotizzata nell’estate
del 2011 dall’ex Ragioniere Generale dello Stato Andrea Monorchio. Secondo
quest’ultimo, in Italia, sarebbe auspicabile introdurre un imposta patrimoniale che consenta di garantire con beni reali il debito pubblico Italia. In altre
parole e semplificando, si tratterebbe di introdurre un ipoteca forzosa sul
patrimonio immobiliare insistente in Italia, e garantire le emissioni di
particolari titoli di stato, con dei beni reali e quindi facilmente escutibili
in caso di insolvenza da parte dello Stato. Da segnalare che, secondo l’idea di
Monorchio, questi titoli sarebbero dovuti essere sottoscritti dalla BCE, in
contrasto con tutti i trattati europei che vietano la monetizzazione del debito
da parte della banca centrale. Niente male come idea, se non fosse che neanche
un Paese bolscevico sarebbe capace di arrivare a tanto.
Evitandovi la noia di argomentare su numeri
aggregati desumibili da un rapporto di Bankitalia pubblicato qualche mese fa con
il quale si stima la ricchezza degli italiani, se ne avete passione e
l’aspirazione, prendendo lo studio dell’istituto di via nazionale, fatte le
dovute considerazioni, ne derivereste che il gettito di un'imposta patrimoniale
sarebbe drammaticamente più contenuto rispetto a quello che i vari Bersani
& c. paventano, escludendo patrimoni fino al milione di euro. Con la
controindicazione che questa, oltre ad essere una tassa iniqua ed ingiusta per
definizione (poiché andrebbe a colpire
anche i patrimoni realizzati con flussi di reddito già ampiamente tassati, al
pari di quelli realizzati sfuggendo ad imposizione fiscale o pagando tasse in
maniera ridotta), comporterebbe il concretizzarsi di un evento deprecabile che
comprometterebbe in maniera sostanziale anche la già precaria fiducia dei
risparmiatori nei confronti dello Stato e, soprattutto, sarebbe lesiva degli
interessi dei risparmiatore, come già detto costituzionalmente tutelati. Senza
dimenticare poi, che molte sostanze liquide appartenenti a contribuenti che
dispongono di patrimoni interessati all’imposta patrimoniale,
sono state già occultate in maniera più o meno lecita al fisco, convertendo in
denaro contate i rispettivi investimenti o, ancora peggio, allocandoli fuori
dal perimetro nazionale, magari su
qualche conto offshore di qualche paradiso fiscale. In Italia, non esistono
spazi per un ulteriore inasprimento fiscale e, lontani da ogni demagogia, mi
sento di suggerire ai vari politici di turno, che pensassero a qualcos'altro di
diverso per rimettere in carreggiata il Paese. Sempre che riescano
nell'intento. Ma ne dubito fortemente.
L'argomento é estremamente serio come, del resto la situazione economica e quella politica lo sono altrettanto. L'analisi esposta mi sembra accurata e la trattazione é comprensibile anche per i non specialisti.
RispondiEliminaMi sembra, ma potrebbe essermi sfuggito, che fra i marchingegni fiscali atti a gonfiare il valore tassabile degli immobili, non si sia citato un espediente, già per altro preventivato dal governo, di tassare gli immobili (prima casa compresa, ovviamente) non più in base ai vani di un appartamento, ma in proporzione alla sua superficie misurata in metri quadrati, dato che i comuni già possiedono perchè desumibili dalle dichiarazioni dei proprietari presentate i fini dell'applicazione della tassa sulle immondizie.
Il panorama è terrificante! Di questo passo va realizzandosi il saccheggio integrale di ogni risorsa pubblica e/o privata. Come si trattasse di una città conquistata e sottomessa dall'impero assiro.
RispondiEliminaMa che guerra abbiamo perso e contro chi?
Vien da pensare che sia stato tutto meticolosamente pianificato.
Votate e fate votare Movimento 5 Stelle.
RispondiEliminaOra si trema dalla paura. Io non potrei pagare nulla.
RispondiEliminaSono stato colpito drasticamente dalla crisi.
La situazione peggiora giorno x giorno. Le promesse elettorali non possono migliorare la situazione.
Inutile illudersi nessuno può risolvere la situazione. Ci hanno condannati a una perenne povertà.
Riduzione drastica costi spese correnti al 50%( Stipendi Pensioni Affitti ) , Riduzione pagamento interessi Titoli di Stato etc. 50%
RispondiEliminaIl tutto contabilizzato a favore degli addetti con titoli trentennali.