di Paolo Cardenà
Desta sempre molto stupore e indignazione il dato sulla pressione
fiscale che , secondo quanto ci riferisce oggi il presidente di Confcommercio
Sangalli per tramite de Il Sole 24 Ore, si attesterebbe al 55%.
«Abbiamo
raggiunto - ha detto il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli - un livello
di pressione fiscale che, per chi le tasse le paga, si attesta attorno al 55
per cento. È un livello che zavorra drasticamente investimenti e consumi».
La realtà è ben diversa e come ho avuto modo di argomentare in un
precedente articolo, il dato medio indicato dai vari centri studi, non ci racconta l’esatta situazione del prelievo fiscale e
la relativa disuguaglianza tributaria, se non scomposto tra le varie categorie
di contribuenti che lo compongono.
In vero il dato ,
esprimendo delle variabili aggregate, sintetizza, di fatto, un indicatore medio
del livello di tassazione nell’universo di una popolazione. In altre parole,
proprio perché rappresenta un valore medio, per definizionen è soggetto a
distorsioni e non esprime in alcun modo il livello di tassazione per alcune
categorie di soggetti che può raggiungere, come vedremo in seguito, livelli
decisamente distanti dalla media indicata, manifestando, in maniera
inquietante, la disparità fiscale esistente in Italia.
Poniamo ad esempio un piccolo imprenditore
commerciale che nel primo anno di attività abbia conseguito
un utile da bilancio al 31/12 pari 70 mila euro e che, per effetto della
ripresa a tassazione di alcune componenti di costi non deducibili o
parzialmente deducibili (es.: Autovetture, ristoranti ecc ecc), il suo reddito
fiscale sia 76 mila euro. Un ottimo utile si direbbe! Ma quanto rimane
effettivamente in tasca al nostro contribuente e quel’è la pressione fiscale
che egli subisce?
Nel caso appena descritto il nostro contribuente,
benché abbia realizzato un utile al lordo delle imposte di 70 mila euro,
egli dovrà corrispondere imposte su un reddito fiscale di 76 mila euro e,
a conti fatti, tra Irpef, Irap, addizionali regionali e comunali e
contribuzione Inps, egli dovrà versare all’erario circa 47 mila euro su
70 mila di utili realizzati; euro più, euro meno.
Benché il prelievo fiscale, in questo caso, sia
già di oltre il 67%dell’utile della sua attività, il nostro contribuente
dovrà all’erario, fuori dal perimetro del suo reddito e della sua attività di
impresa, altre imposte come ad esempio l’iva sui consumi, l’Imu sulla sua
abitazione, eventuali imposte di bollo, di registro ed altro. Quindi,
ipotizzando che egli spenda in termini di consumi 18 mila euro per il suo
sostentamento e della propria famiglia ed ipotizzando un aliquota media
dell’iva del 16%, egli verserà indirettamente allo stato altri 2500 euro di
imposta sul valore aggiunto, arrivando così ad oltre i 49 mila euro di
imposte pagate su 70 di utile realizzato, che rappresentano ben il 71%. Sommando
l’eventuale Imu e altre tasse minori (ma non marginali) e altre occulte, potremmo
arrivare agevolmente alla soglia 75% del reddito prodotto, o forse
più.Analogo discorso può osservarsi per i redditi da lavoro dipendente.
A tale livello di pressione fiscale ai limiti
dell’impossibile e dell’insostenibilità, si contrappone un regime molto più
agevolato per le rendite di natura finanziaria tassate al 20% (12.5% nel
caso di titoli di stato), e per i redditi derivanti da locazioni di immobili
ad uso abitativo per i quali il legislatore, seppur con alcune
distinzioni, ha previsto un aliquota secca del 21%.
Benché gli esempi sopra riportati, nella loro
semplicità, costituiscano dei casi limite del sistema fiscale italiano (ma
non troppo a dire il vero, considerata la vastità della platea dei contribuenti
interessati da tali fattispecie), ci offrono uno spaccato abbastanza
significativo del sistema impositivo vigente e delle disparità celate dal
dato aggregato della pressione fiscale. In buona sostanza si
preferisce adottare la mano morbida sulle rendite finanziarie e sui patrimoni -
talvolta utilizzati anche per condurre azioni speculative a danno
dell’economia - mentre si usa la mano pesante per i redditi derivanti da
lavoro, da attività di impresa, o che comunque sono finalizzati allo sviluppo
economico e quindi alla crescita del benessere collettivo.
E’ evidente che il livello di prelievo
fiscale sul lavoro e sulle attività produttive si traduce oltre che in una
minore capacità di spesa dei contribuenti, anche in un immediato
abbattimento dei livelli di competitività delle imprese costrette,
quindi, a praticare un livello di prezzi più elevato rispetto ai competitor
esteri al fine di recuperare la redditività compressa dal prelievo fiscale.
Quindi, appare indispensabile che al rilancio del sistema Italia debba
necessariamente contribuire anche una rimodulazione del sistema
impositivo fiscale che dovrà ispirarsi a principi di maggiore equità e
progressività di contribuzione, aumentando sia il prelievo sulle rendite
finanziarie e sui patrimoni, a favore di una diminuzione significativa del
prelievo sul lavoro e sulle attività produttive.
Questa soluzione oltre a favorire una diminuzione dei
fenomeni evasivi ed elusivi, renderà le nostre imprese più competitive nei
confronti di concorrenti esteri e permetterà di aumentare la capacità di spesa
delle famiglie e delle imprese, generando non trascurabili dinamiche virtuose
per il ciclo economico. Più o meno il contrario di quanto fatto fino adesso.
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buono
RispondiEliminaLa pressione fiscale non dovrebbe indignare perche' e' la conseguenza di altri problemi, come la spesa pubblica, corruzione, sperperi, questione meridionale e altro.
RispondiEliminaDelle cause che causano una pressione fiscale insostenibile se ne parla poco o niente, anzi vengono accettate come normali, e questo e' pericoloso perche' non si ha il senso della realta' o si preferisce ignorarla.
Inutile arrampicarsi sugli specchi o cercare alibi, quando sarebbe opportuno fare un autoesame e assumersi le proprie responsabilita'.
Dici limite dell'esproprio?
RispondiEliminaIo direi proprio esproprio.
Bravo, continua così.